“Li ho uccisi perché erano troppo felici” – sarebbe questa la motivazione del violentissimo omicidio, da parte di Antonio De Marco, del giovane arbitro Daniele De Santis e di Eleonora Manta, la sua fidanzata. È una frase che negli ultimi giorni passa di bocca in bocca, una motivazione che non può essere una motivazione: troppo assurda, e feroce, per essere vera.

Prima del duplice omicidio, Antonio De Marco ha 21 anni e studia Scienze infermieristiche a Lecce. È introverso, silenzioso, e torna poco a casa sua, Casarano, perché è molto impegnato nello studio. Era uno studente modello, dice ora chi lo conosce. Molto solo.

Per qualche tempo abita in una stanza dell’appartamento di Daniele e Eleonora. Poi, Daniele gli spiega che deve lasciare la casa perché i due giovani hanno intenzione di ristrutturarla e andare a viverci insieme. Un testimone avrebbe poi riferito alla polizia che Eleonora non si sentiva più tanto a suo agio con Antonio. Fatto sta che Antonio non protesta, anzi lascia la stanza prima del termine. Siamo a fine agosto.

Da quel momento, secondo gli inquirenti, inizia a pianificare il massacro. Gli elementi per una lunga premeditazione ci sono tutti. Cinque bigliettini su cui De Marco si sarebbe appuntato il piano – evitare le telecamere delle strade principali, torturare i due giovani, pulire la scena con acqua, soda e candeggina –, un cappuccio ricavato da dei collant, un coltello da caccia acquistato pochi giorni prima. De Marco aveva le chiavi dell’appartamento perché ci aveva vissuto. Prima di ucciderli, voleva farli soffrire.

Il 21 settembre s’introduce in casa. Qualcosa va storto, e i ragazzi tentano di reagire. Eleonora muore in casa. Daniele riesce a scappare, ma viene raggiunto sulle scale e finito lì. I vicini sentono le urla dei ragazzi. Uno di loro vede dallo spioncino Daniele venire raggiunto da De Marco e cadere a terra. Chiamano la polizia. La rabbia cieca di De Marco è testimoniata anche dalle 60 coltellate inferte alle sue vittime, alcune in faccia. La faccia è quello che tu sei. Infierire sul tuo volto vuol dire cancellarti dalla faccia della terra. Vuol dire odiarti così tanto che, quando è finita, tu stesso non ci sei più, o è come non ci fossi mai stato.

Non è capitato anche a noi?

Li ho uccisi perché erano troppo felici. Com’è possibile? È impossibile. Eppure una domanda, tra noi, nel borbottio dei nostri pensieri, non possiamo non farcela – anche se non vorremo, la domanda s’insinua nella nostra testa. Non è capitato anche a noi di invidiare la felicità altrui?

Certo.

Però noi ci siamo limitati a invidiare, con le infinite sfumature che la parola invidia può avere – da un’innocua, bonaria gelosia che ci ha punto un momento e poi non ci abbiamo più pensato, a una tristezza profonda per la nostra condizione comparata a quella altrui, a una sorta di rabbia. Rabbia ingiusta – non è che la felicità degli altri ci neghi la nostra, ci diciamo, non è che la felicità sia un pozzo da cui, se pescano gli altri, non posso più pescare io, eppure quando ci colgono i sentimenti meschini non è che riusciamo sempre a controllarli. Può succedere che l’invidia si tramuti in rabbia, ma niente di più. La coviamo tra noi e cerchiamo di farcela passare. Chi penserebbe di uccidere per cancellare dal viso di altre persone la felicità?

Tanto più quando – come nel caso di De Marco – quella felicità non ha niente a che vedere con un torto fatto a te. Quando quella felicità è solo un dato di fatto, a cui tu però hai assistito, che tu hai visto.

Come si può uccidere una persona, anzi due, e in modo così cruento, solo perché è felice? Non si può. Ma, ecco, è importantissimo riconoscere che ciò che negli assassini germina in follia distruttiva, a volte, in piccola parte, è contenuto in ognuno di noi.

Solo che noi non passiamo il limite, non tramutiamo l’invidia, per esempio, in un sentimento che con l’invidia non c’entra niente: la vendetta. Non ci viene neanche in mente di superarlo, quel limite.

Riconoscere questa scintilla dentro di noi, sia chiaro, non può minimamente giustificare un gesto violento. Può solo dirci che dobbiamo stare attenti. Che, prima di sentirci al sicuro, dobbiamo guardare soprattutto dentro di noi. Che un omicidio non è un atto extraterrestre compiuto da esseri alieni. Che l’oscuro cova dentro ognuno di noi, e siamo noi a doverlo educare per contrastalo, perché si razionalizzi, si spenga, e non diventi azione.

Li ho uccisi perché erano felici. Ma è possibile? Un omicidio è sempre un atto ingiusto e orribile. Al di fuori della nostra comprensione. Ogni omicidio è inconcepibile, e straziante. Ma ogni volta ci sembra che questo omicidio lo sia di più. Più insensato, più cattivo. Davvero non siamo mai al sicuro?

All'improvviso

L’8 novembre 2002 Daniela Cecchin, impiegata comunale piuttosto anonima – anche lei, come De Marco, molto sola, anche lei definita “insospettabile” e “normalissima” – si presenta a casa di una donna che non conosce. Rossana D’Aniello, moglie di un ex compagno di università di Daniela, che peraltro la Cecchin non aveva più frequentato al di fuori dell’università e non vedeva da anni.

Cecchin insegue Rossana D’Aniello per casa e mentre la donna – come i due ragazzi – grida e chiede pietà, l’assassina le fa il verso, la prende in giro mentre quella la supplica di non ucciderla, e la sgozza con tale violenza che in un primo momento gli inquirenti pensano a una forza fisica maschile.

Sono quasi le 9 di mattina. I vicini sentono le urla ma per un’acustica sbagliata – atroce scherzo del destino – mandano la polizia in un altro appartamento e Cecchin agisce indisturbata. Rossana D’Aniello muore. Cecchin dichiarerà: «Era bella e felice, l’ho sgozzata perché ero invidiosa».

Invidia. Tre persone sono state brutalmente uccise con furia, con sadismo, per nessun movente. Non che un omicidio con un movente sia più comprensibile o meno orribile. Non che un movente fornisca mai una scusa a un omicidio.

Ma De Marco, come Cecchin, agiscono non contro qualcuno che gli ha fatto qualcosa – Cecchin aveva semplicemente incontrato per strada, per caso, il suo ex compagno con la moglie – ma contro dei semi-sconosciuti colpevoli di essere chi erano.

La felicità, poi, è uno specchio negli occhi degli altri. Chissà quante volte siamo sembrati felici agli occhi degli altri, mentre in realtà eravamo tristi. Mentre eravamo stanchi e scoraggiati. Chissà quante volte gli altri ci sembrano felici, e non lo sono.

L’omicidio avviene quando un sentimento umano – anche se oscuro e sbagliato – si trasforma in qualcosa che niente ha a che vedere col sentimento primario. Cosa c’entra l’invidia con la vendetta? Cosa c’entra la gelosia con la decisione di toglierti dal mondo? Cosa c’entrano la solitudine e l’esasperazione che possono prendere una donna con un figlio molto piccolo con un raptus omicida?

È questo il nodo. La distorsione dei sentimenti in ossessioni violente, in azioni omicide. La solitudine, spesso, è una miccia che infiamma persone particolarmente labili. L’alienazione. Daniele e Eleonora hanno visto l’orrore che nessuno dovrebbe vedere. A loro, e a tutti quelli come loro, spettano tutta la nostra attenzione, la nostra presenza. Perché possiamo vedere prima quello che succederà. E tentare di non farlo succedere più.

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