Il tempo in Sardegna, quello non atmosferico, è una variabile impazzita. Nel suo trascorrere condiziona la vita quotidiana dell’isola, etichettata, di volta in volta, selvaggia, ancestrale, parco giochi per milionari, culla millenaria. Il tempo in Sardegna può assopirsi, lasciare che il passato si spieghi nel presente e che il futuro non ci sia. Un andamento lento dove alcuni mettono le ali poi planano su altre terre mentre altri restano radicati senza mai un sussulto dando vita all’immagine mobile dell’eternità (Platone). L’occasione per raccontare il tempo senza età che disegna e plasma l’isola come un amore armato, viene da centinaia di scatti in bianco e nero di Lisetta Carmi, in mostra al museo di Nuoro. La fotografa, oggi alla soglia dei cento anni, focalizza la povertà, lo spopolamento e la curiosità dei bambini a partire dal 1962 fino al 1976. Distende uno sguardo disturbante e realista fatto di fogne a cielo aperto, di contadini scavati dalla fatica, di autorità e politici che passeggiano ondulando nelle piazze polverose, di donne in nero che nascondono il proprio volto e di notabili spacconi sorpresi a parlare di donne e affari. Erano gli anni del boom economico che nel Continente portarono, successivamente, a quelli del terrorismo. Ma in Sardegna il tempo è, appunto, una variabile impazzita e quella crescita voluta dai governi centrali porta nell’isola quasi esclusivamente ruspe e trattori per iniziare a scavare in Costa Smeralda alla ricerca di posti di lavoro nel turismo. Lo sviluppo sarà limitato. Geograficamente, perché i soldi arrivano solo in quella zona, ma anche numericamente perché i nuovi lavoratori, beneficiati dal turismo d’élite, non saranno numerosi.

Emancipazione

La massiccia diffusione della povertà in quegli anni porta a un naturale spopolamento degli abitati. Figli di contadini emigrano nel Continente, in Europa o negli Stati Uniti per trovare denaro e una nuova dimensione di vita. Si spostano per fare i camerieri, gli operai o, all’occorrenza, i tuttofare. A casa restano le donne, i bambini e i pochi padroni o notabili. Anche i figli dei pastori escono dall’isola, spinti dai loro genitori. Anche se un detto sardo, ricordato da Guido Pisu, profondo conoscitore dell’anima sarda, sostiene che dei tre figli del pastore uno fa l’avvocato, il secondo il carabiniere e il terzo il bandito. Ironia, naturalmente, che comunque svela una verità: la forte volontà di una generazione di pastori (e non solo) di “far studiare”, di istruirsi. Emancipazione. Le immagini di Lisetta disegnano paesi, costruiti dai sassi, quasi deserti e attraversati di tanto in tanto da spensierati bambini che giocano con niente o da altri adolescenti iniziati al lavoro della campagna.

È la foto di quegli anni, più volte raccontata in letteratura con realismo e poesia da numerosi scrittori sardi, dalla Deledda a Niffoi, a Lussu, Fois, Murgia, Atzeni, Serra ecc., senza distinzioni di tempo perché tutti hanno giocato o giocano col tempo impazzito della Sardegna secondo il proprio talento, per il piacere di farlo. Tutti raccontano storie del passato, o accadute nel passato, ma con la capacità di provare a disegnare quello che accade ai giorni nostri, compresi gli scrittori che hanno vissuto tra l’Ottocento e il Novecento. Perché il passato si spiega nel presente e il futuro appare un involucro illusorio in questa isola battuta da venti dispettosi. Racconta Lussu che nella Sardegna povera dei primi anni del Novecento a Buggerru, sulla costa occidentale, una società a capitale francese proprietaria della miniera occupò oltre 2000 persone tra uomini, donne e ragazzi. Fu la risposta del governo per abbattere la povertà. Ma le condizioni di lavoro erano durissime, silicosi e tubercolosi all’ordine del giorno. Condizioni inumane con il ricatto dell’occupazione. Quando i minatori si fermarono per protesta, i francesi chiesero l’aiuto del governo. Arrivò l’esercito che pensò bene di sparare sulla folle inerme, uccidendo una decina di minatori. Ci fu lo sciopero e fu il primo sciopero generale della storia d’Italia.

Spopolamento

Nel tempo, quello della variabile impazzita, la miniera si esaurì, i francesi tornarono a casa dopo aver ben guadagnato sui polmoni dei sardi che rimasero così senza lavoro. Il sistema pluridecorato del «metto i soldi, incasso il più possibile, elemosino briciole, poi me ne vado con un bel gruzzolo», ha regnato in questa terra fino ai giorni nostri. Chi poteva e voleva se ne andava, fuggiva dall’afrore terragno e perverso. Ancora oggi i figli dei figli dei contadini preferiscono l’incognito in altre terre che restare prigionieri nei luna park occupazionali che si sciolgono come panna montata al sole.

La povertà degli anni Sessanta fotografata da Lisetta con le sue fogne a cielo aperto tra le piccole strade dei paesi oggi si è notevolmente ridotta ma lo spopolamento, la fuga da una vita difficile e con poche possibilità, è addirittura aumentato. Nella maggior parte dei comuni sardi la popolazione residente continua a diminuire drasticamente. La Sardegna appare sempre più una terra destinata allo spopolamento. Secondo una ricerca dello Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno, nel 2065, tra poco più di quarant’anni, l’isola si troverà ad avere soltanto 1.181.774 abitanti. A fuggire oggi sono soprattutto laureati, giovani in cerca di occupazione. Hanno studiato, si sono impegnati ma per lavorare emigrano direttamente all’estero, saltando la possibilità di trovare un lavoro in continente ormai inadatto all’occupazione. In Sardegna è in atto un processo avanzato di desertificazione sociale con numeri esagerati rispetto allo spopolamento del resto del paese. Un fenomeno preoccupante. Sono 377 i comuni che contano perdite continue e solo una trentina di paesi, dislocati per la maggior parte sulla costa, mostrano cenni di crescita. Cardedu, Olbia e Quartu guidano la classifica della ripresa demografica.

Giacomo Mameli, giornalista, scrittore, stratega intellettuale dell’isola con il Festival letterario di Perdasdefogu in Ogliastra racconta che sua madre ostetrica aveva fatto nascere in un anno 1.846 bambini. Oggi ne vengono al mondo poco più di quaranta l’anno. C’è da considerare inoltre che la popolazione sarda è vecchia. A Perdasdefogu ci sono meno di 1.800 abitanti e otto sono ultracentenari viventi. «La crisi del lavoro è la causa principale» dice Mameli. E aggiunge: «Sono gli studenti universitari che se ne vanno dall’isola per raggiungere l’Inghilterra e gli Stati Uniti». In Sardegna si aprono e si chiudono attività nel giro di poco tempo perché non esiste un progetto, una sorta di pianificazione in grado di sconfiggere la carenza di lavoro. Alla chiusura di Porto Torres e di Ottana non c’è stato alcun seguito. Tutti a casa, punto e basta. Come accadde alle miniere di Buggerru qualche anno prima. È il tempo impazzito, nel segno dell’eterno ritorno.

Senza lavoro

La mancanza di lavoro in Sardegna è endemica. Eppure non mancano gli amanti dell’isolamento che per rafforzare le loro tesi sottolineano il basso consumo di suolo, l’alto valore ambientale, la qualità della vita, la longevità, l’ancoraggio alle tradizioni, la custodia delle attività lavorative del passato, il valore del silenzio, l’elogio della solitudine e la lentezza per la qualità della vita. Temi nobili da non strumentalizzare.

La Sardegna operosa quella delle attività produttive esistenti (dall’uso della terra agli impianti eolici, al turismo, all’artigianato ecc.) deve fare i conti con l’incapacità di creare una microeconomia di scambi. Lo spopolamento viene anche definito un fenomeno fatale, quasi inevitabile, e qualche amministratore dei paesi più abbandonati non ha trovato di meglio che organizzare corsi di launeddas gratuiti.

Miniere e launeddas alla ricerca del tempo perduto. Dai volti scavati dei minatori alle donne forti e gentili, rimaste sole, ai bambini gioiosi e preoccupati, ritratti in bianco e nero, che oggi, ormai settantenni, ricordano un passato che è ancora sotto i loro occhi. È il tempo senza età che regna immobile e indisturbato in Sardegna. Con il rischio di morire giovane.

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