Pronti-per la partenza, e stop, pazienza, se ne riparla un’altra volta. Via sono le tre lettere che ormai Marcell Jacobs riesce a pronunciare raramente. I 100 metri sono la corsa più breve dell’atletica all’aperto e la finale olimpica che dura meno, invece lunghissima sta diventando l’attesa di lui, uomo da una fiammata d’oro a Tokyo e da innumerevoli rinunce. Non sente il suono di uno sparo, non si alza dai blocchi dentro uno stadio, dal 16 agosto scorso, quando fu primo agli Europei con un tempo medio, da quinto posto alle Olimpiadi (9.95), senza dover piegare chissà quale resistenza. È da quasi due anni che gli americani lo inseguono per avere la rivincita dei Giochi, più di tutti lo fa Fred Kerley, secondo in Giappone e poi campione del mondo 2022 a Eugene in sua assenza. Lo cercano a ogni meeting, ma Jacobs è imprendibile, come un’ombra, come una nuvola. Nei 673 giorni trascorsi dalla gloria olimpica fino a stamattina, ha corso i 100 metri solo sette volte. Kerley è arrivato a 18 uscite sabato scorso a Firenze, l’ultimo posto dove Marcell gli aveva dato appuntamento e dove alla fine non s’è presentato. 

Le noie muscolari

Lo schema si ripete uguale da un po’ di tempo. Poco prima della corsa, Marcell dà un’intervista, garantisce che sta bene, sta benissimo, fa grandi programmi, a guardare le foto anzi scoppia di salute, assomiglia a un Braccio di Ferro senza la pipa in bocca. Allora pensi che adesso se li mangia tutti, vedrete, pam, parte e se li mangia. Solo che no, non parte, perché all’improvviso avverte un dolore, eppure non c’era l’altro giorno quando parlava, ma adesso sì, lo sente. Non proprio un dolore, ecco, un dolorino. Non un vero impedimento, spiega in genere la nota che dà la notizia agli spettatori col biglietto in tasca, e sono tanti, perché intorno a Marcell Jacobs s’è accesa una specie di febbre nazionalpopolare. Lo schema Marcell chiarisce che si ferma solo per prudenza. Non vuole correre il pericolo di un infortunio vero, dunque non corre proprio. Così stiamo accettando il paradosso di un velocista fuori a lungo per non rischiare di restare a lungo fuori. La frase che torna, quando si fa da parte, garantisce che “la sfida è solo rimandata”.

Un caso rimosso

Ma sono quasi due anni che rimanda. Kerley ha riempito l’attesa correndo 16 volte sotto i 10 secondi, l’antica barriera dell’eccellenza per un velocista, di cui la metà sotto i 9.90, il crono che oggi vale una medaglia olimpica. Il contatore di Marcell dall’agosto 2021 segna due uscite sotto i 10 e nessuna sotto i 9.90. Dovrebbe essere trattata come una questione gigantesca per lo sport italiano, Jacobs porta la corona che fu di Bolt, ma il Coni di Giovanni Malagò tace e la federazione guidata da Stefano Mei accetta che Marcell continui a gestirsi in libertà, senza intervenire neppure nel processo di progressivo distacco dalla staffetta, altro oro olimpico mai raggiunto prima, e che andrebbe tutelato. 

Torna sempre buona la sfortuna, a cui dare la colpa per queste noie muscolari. Solo che non esistono manuali di fisiologia che le attribuscano al caso. Sono invece la spia di un malessere e il segno di qualche errore commesso, forse nei carichi di lavoro, nel programmare gli impegni, nel recupero dalla fatica, nell’alimentazione, nello stile di vita, nel ritmo del sonno, nella postura, nella masticazione, nella deglutizione, C’è un errore da qualche parte, questo è sicuro, eppure la questione è rimossa, e a dirlo si passa per eretici. È meno complesso rifugiarsi in quel misterioso mondo semantico dove si parla di campione di cristallo e muscoli di seta. È meno complesso spostare l’attenzione sul trash talking in corso con Kerley, il quale lo vede solo da lontano e lo sfotte dai social per le assenze. Le vittorie dell’americano in 9.94 a Rabat e a Firenze sono state descritte dalla Curva Marcell come poco impressionanti, ma Kerley era due settimane prima dall’altra parte del mondo a correre i 100 metri in 9.88, mentre in 9.94 Jacobs non ha mai corso dall’agosto 2021. A dirla tutta: neanche prima. 

Il suo miglioramento

È al passato che si deve guardare per provare a capire cosa succede. Fino a tre mesi prima della finale olimpica, Marcell Jacobs non era mai sceso sotto i 10 secondi. Il suo miglioramento è stato improvviso. Vinse l’oro in 9.80, togliendo 30 centesimi al tempo di 10.10 corso nel 2020. Un miglioramento del 2.97% in 12 mesi, molto fuori dai canoni, oltre le tabelle dei più grandi fra i grandi. Per arrivare al primato mondiale di 9.58 nel 2009, Bolt crebbe in 12 mesi solo dell’1.13%. Per limare il 3% circa come Marcell, aveva dovuto aspettare 2 anni, ed era Bolt. Tyson Gay, il secondo uomo più veloce della storia, ha tolto l’ultimo 3% dal suo 9.69 in 5 anni. Cinque ne aveva impiegati pure Asafa Powell per scendere a 9.72, mentre Carl Lewis era arrivato nel 1991 al primato mondiale di 9.86 dopo un’attesa 11 anni per sottrarre la famosa quota del 3% alle sue prestazioni. Per Calvin Smith gli anni sono stati nove, per Ben Johnson quattro, per Pietro Mennea tre. Jacobs è dunque progredito nell’arco di 12 mesi come nessuno dei 10 migliori di sempre. Il 9.80 che lo ha reso campione olimpico è stato corso all’improvviso, e solo quella volta là. 

La pista di Tokyo e le scarpe

Marcell si è giustamente risentito, quando una porzione di stampa internazionale ha fatto notare con molta malizia questa sua gloria sbucata dal nulla, accompagnata dalla sottolineatura che tutti gli sprinter da 9.80 in giù hanno avuto disavventure con l’antidoping, a eccezione di Bolt. Gli inglesi erano incuriositi dalla storia di un vecchio nutrizionista finito in un’inchiesta per traffico di ricettari e anabolizzanti. Non era coinvolto in nessun modo Marcell, il tribunale ha poi disposto il proscioglimento dell’indagato. Non è questo il punto. C’è stata a lungo freddezza anche nel mondo dei pubblicitari e delle grandi aziende per il Pie’ veloce della nazione, texano di nascita e di padre, madre bresciana, un poliziotto, scaltro abbastanza da arrivare al traguardo e smarcarsi, attento a non essere divisivo: “Lo ius soli? Non mi interessa. Direi cose che scontentano qualcuno”. Alla fine ha rotto con l’agenzia di Fedez che lo rappresentava. 

L’eccezionalità del 9.80 olimpico ha ragioni certificate. Il contributo alle prestazioni che viene dalle scarpe e dai materiali di nuova generazione è acclarato. I nuovi modelli sono stati brevettati prima per le prove su strada, poi per la pista. Hanno suole speciali e una schiuma interna, producono un effetto rimbalzo. Sulla pista di Tokyo perfino di più, come hanno dimostrato i tre record mondiali e i sei record olimpici battuti nell’estate 2021. Negli ultimi cinque anni, Jacobs ha corso 45 volte i 100 metri, ma sotto i 9.95 solo tre volte, tutt’e tre le volte a Tokyo, dove le sue scarpe Nike si combinarono con una superficie speciale preparata dall’azienda piemontese Mondo. “Mi sembrava di correre su delle molle” disse l’ostacolista americana Sydney McLaughlin. 

Le prospettive

Così, Marcell e il suo coach Paolo Camossi hanno finito per credere al risultato di una sera, molto fuori scala rispetto alle prestazioni medie degli anni precedenti. Ne hanno fatto il nuovo parametro di riferimento, la base di sogni possibili. In due interviste differenti, Camossi si è spinto a ipotizzare uno Jacobs da 9.70  e perfino da 9.62. Tokyo ha partorito un’ossessione. Ecco perché volarono nel maggio scorso a Nairobi, per un meeting in altura, improvvisando, cambiando l’agenda, senza aver preparato l’impegno. La macchina Jacobs è stressata da allora. Camossi gli ha ritoccato la meccanica della corsa per aumentare l’ampiezza della falcata di 2 centimetri, senza rallentare le frequenze. Con una media di 12 metri al secondo e una punta di velocità a 43 km orari, i conti danno un guadagno di 90 centimetri e il famoso 9.70. L’ossessione per Bolt ha spinto Jacobs a firmare per il suo sponsor, la Puma, salvo scoprire che alle scarpe nuove non si adattava in fretta. È stato rapidamente smontato e nascosto il progetto di correre anche i 200 (“Vale 19.80-19.85”, sempre Camossi). Ha iniziato a perdere pure sui 60 metri, agli Europei indoor da Samuele Ceccarelli, un toscano senza esperienza internazionale. Così, sempre più spesso, ora spunta un dolorino alla vigilia, per ricordare a Marcell quanto lontano sia il 9.80, per risvegliare in lui la riluttanza a farsi battere, il dolore di sentirsi chiamare un colosso d’argilla. Per venerdì è iscritto a Parigi. Non c’è Kerley ma Noah Lyles, altro americano arrabbiato che lo insegue. Fino a pronti-per la partenza, ci arriviamo. Dopo, vallo a sapere.

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