«Non ci siamo arresi all’Ilva, figuriamoci a questa pandemia. Il Covid ha solo rallentato la nostra battaglia ma il 2021 sarà l’anno della ripresa». Vincenzo Fornaro parla e sembra che quanto accaduto in questi anni sia solo un passaggio fortuito della vita. Eppure si può dire che il fato si sia divertito a mettergli ostacoli e trappole. È salito, senza volerlo, agli onori delle cronache 12 anni fa. Nella masseria di famiglia erano allevate da generazioni capre e pecore. Un giorno di dicembre del 2008 si scopre che quelle bestie hanno inghiottito, insieme all’erba, diossina fino a cinque volte superiore ai limiti di legge. Vengono abbattuti più di 500 animali.

La loro colpa è pascolare in terreni troppo vicini all’area dove sorgono i camini dell’Ilva. Il processo “Ambiente Svenduto” darà a breve delle risposte su una storia che ha cambiato la vita di tutta la famiglia. Vincenzo, insieme ai tre fratelli, non ha mai mollato. Se l’inquinamento gli consumava la principale fonte di reddito, lui pensava alla canapa per riconvertire terreni e prospettive. Se la diossina gli sporcava la terra e la fiducia, lui si inventava la fattoria didattica e le visite guidate in masseria. Per poi trasformarla in un contenitore di eventi e di spettacoli. L’ennesimo scherzo del destino si chiama Covid-19 che ha bloccato tutto. Certo, non solo a Vincenzo ma per uno che ha dovuto ricominciare mille volte poteva essere la mazzata finale. «E invece no. Anzi, sono sicuro che arriverà la svolta».

Spazzare via la storia

La “Masseria Carmine” è diventata il simbolo della resistenza contro l’Ilva. Ma è sorta molto prima del colossale stabilimento siderurgico. La tenuta nasce nel 1859 con oltre 70 ettari di terra e in mezzo a ulivi secolari. È dei nobili Beaumont-Bonelli e rimarrà di proprietà della famiglia napoletana per un secolo. La sua strada si incrocia con i Fornaro esattamente cent’anni dopo. Siamo alla fine degli anni Cinquanta e si è deciso che il polo siderurgico più grande d’Europa sarà costruito a Taranto. Il nonno di Vincenzo, che si chiama come lui, è il capostipite degli allevatori: i suoi possedimenti sono al quartiere Tamburi, quello che oggi viene definito “delle ciminiere”. Il governo decide di espropriare terreni e masserie per fare posto alla siderurgia. Tra questi c’è anche la “Masseria Zitarella” di Fornaro senior che si batte fino all’ultimo ma poi è travolto dalla ragion di stato. Lì dove aveva piantato dei vigneti adesso ci sono i parchi minerali. Parallelamente gli eredi Beaumont-Bonelli decidono di dismettere i propri averi e trasferirsi definitivamente a Napoli.

«Mio nonno lavorava lì come fattore e colse l’occasione: comprò la “Masseria Carmine” nel 1959, i miei genitori ci hanno vissuto da sempre e io ci sono nato nel 1970. Il mio dna è in questo posto». La vita scorre tra cavalli, pecore, capre, galline e api per fare il miele, ma a pochi chilometri di distanza l’Italsider inizia a macinare acciaio. Il giovane Vincenzo deve affrontare le prime difficili sfide tra il 2000 e il 2003. «Nel 2000 mi fu diagnosticato un tumore al rene. Mai fumato, sempre attento ai cibi naturali e biologici. Mi operarono d’urgenza a Verona: vivo senza un rene da allora. Almeno, però, vivo». Tre anni dopo sua madre è uccisa dallo stesso male. I fratelli Fornaro insieme al papà proseguono le attività. Optano per l’agricoltura biologica ma non fanno i conti con le diossine, ossia un gruppo di sostanze altamente inquinanti.

«Il 21 marzo 2008, ricordo che era il venerdì santo. Arrivarono i primi controlli dell’Asl dopo una segnalazione dell’associazione Peacelink sulla possibile contaminazione dei cibi. Il monitoraggio riguardava alimenti come i formaggi prodotti nel raggio di 20 chilometri dalla zona industriale». I risultati arrivano dopo una settimana. Il latte è contaminato da diossina e Pcb (policlorobifenili). Poi si passa alle bestie. Quattro capre e quattro pecore sono abbattute per esaminare le carni: il limite è superato abbondantemente. Quello che si temeva, è realtà. Il 10 dicembre vengono abbattuti oltre 500 capi. «Le autorità vennero in assetto antisommossa per prelevarli. Punirono le vittime e non i carnefici».

Lo stesso giorno, in una nota ufficiale, Ilva si affretta a precisare che «diffiderà chiunque dal porre tale correlazione fino a che gli esami non avranno stabilito» la provenienza delle diossine. «Quelle notti non riuscivamo a dormire. Non solo per quanto successo ma anche per quel silenzio. Eravamo abituati da anni a sentire belati e campanacci. All’improvviso, il nulla». Finisce un secolo di storia. Un danno di circa 200mila euro senza considerare i guadagni persi con l’attività. I quattro fratelli e il papà si ritrovano davanti al camino della masseria. Pensano di mollare tutto ma poi il sussulto d’orgoglio ha la meglio. Decidono di intraprendere una battaglia legale e diversificare le attività. Masseria Carmine non farà la stessa fine di capre e pecore.

Una nuova vita

La nuova èra viene inaugurata grazie al maneggio per cavalli. La masseria si trasforma in una pensione per gli amici equini: i proprietari degli animali che affidano ai Fornaro ronzini e stalloni arrivano da tutta Italia. C’è anche l’ippoterapia per aiutare persone diversamente abili che trovano benefici nell’approccio con i cavalli. A questo si affianca l’attività divulgativa. Si organizzano passeggiate per scoprire le meraviglie sopravvissute al progresso industriale. Alla devastazione di decenni fa sono scampati angoli di rara bellezza delle gravine. In più c’è anche la sfida personale. Vincenzo si candida alle elezioni comunali del 2017. Non viene eletto come sindaco ma raccoglie i voti per entrare nel consiglio comunale. «Un’esperienza formativa, sto dando il mio contributo ma non so se mi ricandiderò la prossima volta».

Il passaggio più simbolico riguarda però la canapa. In uno dei vari convegni in cui Vincenzo, suo malgrado, racconta la sua esperienza, scopre un possibile antidoto all’avvelenamento dei suoi terreni. Tra i poteri curativi della pianta, infatti, c’è quello di depurare la terra. Biodegradabile, può essere utilizzata in vari settori tra cui l’edilizia. La prima semina è del 2015: non viene trasformata in quanto si vogliono testare i risultati. Solo che l’ente certificatore si tira indietro e i Fornaro praticamente perdono un raccolto. Gli anni successivi il ciclo di semine non può avanzare poiché vige un divieto di smuovere la terra per prevenire la diffusione degli inquinanti in atmosfera. Il 2020 doveva essere l’anno buono per ripartire ma arriva il coronavirus. I semi provenienti dalla Francia arrivano in ritardo per la semina primaverile. Saranno buoni per l’anno prossimo, pensa Vincenzo. Il problema, però, è che il virus paralizza anche tutto il resto. Gli eventi, per esempio. Musica, concerti, escursioni sono congelati. La prima ondata blocca anche le corse a cavallo nel vicino ippodromo. Vincenzo, che fa pure il fantino, deve guardare l’industria che continua a sfornare acciaio – anche se sempre meno – mentre lui e i cavalli sono fermi nei suoi campi. Migliora qualcosa con il trascorrere dei mesi.

«Ora abbiamo ripreso a correre all’ippodromo. Prima facevamo 130 giornate all’anno, adesso arriviamo a una cinquantina. Andrà meglio, dai». Il suo amore viscerale per la natura lo farà combattere per la sua terra. Il 2021 sarà l’anno chiave. La sentenza nel processo “Ambiente Svenduto” – il nome deriva dall’inchiesta che nell’estate del 2012 ha portato al sequestro degli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria di Taranto e agli arresti degli ex proprietari Riva – dovrà dare risposte a tanti. Anche ai Fornaro che chiedono un risarcimento di 5 milioni di euro complessivi: se sarà accertato il nesso causale tra l’Ilva e la diossina, già in primo grado sarà definito un primo ristoro. «E anche il Covid ci farà meno paura, sono convinto che vaccini e terapie ci faranno tornare alla normalità. Anche se qua, di normale, non c’è granché».

 

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