Il fondatore dell’anatomia moderna Andrea Vesalio studiava il corpo maschile e poi applicava le conclusioni anche a quello femminile, come se il fisico delle donne fosse uguale a quello degli uomini, solo un po’ più piccolo. Non era l’unico a pensarla così: per secoli la ricerca medica si è basata sull’idea che i corpi maschili rappresentassero l’umanità intera. Di conseguenza, il sesso femminile è stato a lungo escluso dagli studi scientifici, ma uomini e donne non si ammalano allo stesso modo e rispondono diversamente alle terapie e ai farmaci.

Il rapporto “Verso un’equità di genere nella salute e nella ricerca”, realizzato da Fondazione Onda con il contributo di Farmindustria, presentato il 17 gennaio, riconosce l’importanza di una medicina diversificata. «Negli uomini le malattie cardiovascolari si manifestano intorno ai quarant’anni mentre nelle donne la loro incidenza aumenta dopo la menopausa», si legge nell’indagine a proposito della principale causa di morte nei paesi industrializzati. Queste differenze non riguardano unicamente le diagnosi, ma anche cure, farmaci e terapie. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, alcuni farmaci usati in caso di infarto possono causare «emorragie importanti» nelle donne. Altre medicine contro l’ipertensione riducono le probabilità di infarto negli uomini, ma aumentano il rischio di morte da patologie cardiache nel sesso femminile. Inoltre, si è a lungo ritenuto erroneamente che alcune malattie fossero tipicamente maschili, come la cardiopatia ischemica, escludendo le donne dal percorso di prevenzione e di cura.

Nonostante queste differenze siano ormai note, ancora oggi non sempre il sesso e il genere sono considerati in modo appropriato nella ricerca. «Ci sono tanti motivi che spiegano perché il sesso femminile spesso non è stato incluso nelle ricerche», dice Daniele Coen, medico e coautore di Quella voce che nessuno ascolta. La via della medicina di genere alla salute per tutti (Giunti, 2023). «Le donne hanno una ciclicità ormonale che può influenzare tanti fattori e rendere più difficile valutare i dati. Gli studi dimostrano anche che manifestano un numero più elevato di effetti collaterali ai farmaci, quindi è più semplice escluderle a priori. C’è anche la possibilità che siano incinte e che si sottopongano a studi farmacologici che potrebbero creare problemi al feto».

Negli anni la situazione è migliorata anche se, secondo la direttrice del Centro di medicina di genere Elena Ortona, «nei lavori scientifici non sempre vengono presentati i dati disaggregati per sesso. Negli studi che utilizzano gli animali spesso le ricerche sono effettuate su esemplari di sesso maschile per evitare la variabilità ormonale, che richiederebbe un numero di casi più elevato e spese maggiori. Questo vale anche per le ricerche sul genere umano. Nelle prime fasi di sperimentazione dei farmaci vengono arruolati quasi sempre esclusivamente soggetti uomini, ma così non si può valutare l’effetto su entrambi i sessi».

Prendere in considerazione le differenze è utile per dare una risposta specifica alla persona: «A lungo termine questo approccio porterà anche un risparmio al sistema sanitario nazionale perché garantirà un migliore stato di salute e meno effetti avversi causati dai farmaci», dice Ortona.

La medicina di genere

Le evidenze scientifiche hanno portato alla nascita della medicina di genere (Mdg) o genere-specifica, definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona». Non è una branca medica a sé stante, ma un approccio interdisciplinare, che parte dal presupposto che esistono diversità tra uomini e donne nella risposta ai trattamenti terapeutici, nella nascita e nello sviluppo di patologie. La Mdg non tiene quindi unicamente conto delle diversità legate al sesso, che dipendono da fattori genetici e ormonali maschili, femminili o intersessuali, ma anche dei fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali.

Come sottolinea Coen, la medicina di genere è un passo culturalmente importante. Mettere in evidenza le differenze e individuare percorsi specifici deve essere l’obiettivo del sistema sanitario nazionale per assicurare l’equità e la pari opportunità in ambito di prevenzione, diagnosi e cura. «Ma equità non significa uguaglianza», spiega Ortona. «La medicina di genere è proprio la medicina della diversità, mette in risalto le differenze». La denuncia che la medicina non fosse una scienza neutra risale agli anni Settanta. In Italia, a livello normativo, si è iniziato a parlare di genere come «determinante di salute» dal 2016, due anni dopo che l’Oms lo aveva individuato come tema fondamentale della programmazione 2016-2019. «In Italia siamo all’avanguardia in questo», dice Ortona. Con l’approvazione della legge 3/2018 “Applicazione e diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, per la prima volta in Europa è stato garantito l’inserimento del genere nelle specialità mediche, nella sperimentazione dei farmaci, nella ricerca, nelle terapie e nella divulgazione. La legge prevedeva anche la predisposizione di un “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”, del 2019. Nel 2020, poi, è stato istituito l’Osservatorio per la medicina di genere presso l’Istituto superiore di sanità, che monitora le azioni di intervento e ne promuove la corretta applicazione.

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