Il papa ha creato 9 nuovi cardinali, ai quale spetterà il compito di eleggere il successore. Ha adempiuto il suo dovere, perché è lui che deve garantire il numero di 120 elettori, e anzi ha superato quel tetto, che tornerà ala soglia canonica ad aprile prossimo, salvo decessi o dimissioni. E poi ha fatto quattro cardinali degli ottantenni, continuando l’uso di far crescere la parte senza diritti elettorali, per onorare figure meritevoli di papale gratitudine o di papale risarcimento.

Tre cardinali elettori annunciati ieri sono italiani: Paolo Lojudice, cinquantenne arcivescovo mandato a Siena un anno e mezzo fa dopo essere stato ausiliare di Ostia; Mauro Gambetti, ancora più giovane, custode del convento di Assisi,  ma bolognese di formazione e di studi; e Marcello Semeraro, da anni segretario del gruppo di cardinali che doveva aiutare il papa a governare la chiesa e che alla fine ha scritto la riforma della curia, che ha messo a servizio del papa una ecclesiologia limpidamente conciliare. Insieme a loro diventano cardinali elettori il segretario generale del Sinodo Greca, l’arcivescovo di Washington, di Santiago  del Cile, della città filippina di Capiz e del sultanato del Brunei (dove vige la Sharia).

Anche questa volta, come ad ogni creazione cardinalizia, la banalità spingerà i banali a barocchi calcoli sull’effetto delle origini geografiche sulla maggioranza del futuro conclave.

Dimenticando che di essa sfugge la natura ad una cultura democratica, abituata a pensare che la maggioranza si conti sui votanti (per dire, alle elezioni presidenziali Usa di quattro anni fa, il 56,5 per cento di Trump era il 31,47 per cento degli grandi elettori) laddove la meccanica conclavaria domanda il 66,4 per cento degli elettori (che per rimanere nel paragone americano è un quorum inarrivabile).

Il fatto che fra i nuovi cardinali ci siano europei americani, asiatici, africani non cambierà in nulla l’equilibrio del collegio. Perché il collegio non si divide per nazioni e per continenti: ma per culture, generazioni, storie personali, studi, mestieri.

E non muta in una “infornata”: ma per un lento processo di accumulo, che da decenni vede in calo i cardinali europei e italiani (che sono comunque 22), e nel quale Francesco è intervenuto con una riforma del collegio cardinalizio, non scritta, ma quanto mai decisiva.

Il papa infatti ha abrogato la categoria della diocesi “cardinalizie”, quelle per le quali il papa di fatto si obbligava a dare la porpora al prescelto, anche dopo essere diventato l’unico elettore dei vescovi stessi.

Decisione preparata dai predecessori che avevano incominciato a non dare il cappello cardinalizio al nuovo vescovo finché era vivo e non ottuagenario il predecessore porporato; e  accelerata da papa Bergoglio che specialmente in Italia ha dato il cardinalato a vescovi di sedi piccole o marginali, e ha lasciato senza berretta le chiese più importanti del paese, come accaduto anche in questa inattesa creazione ottobrina.

Un segno tangibile della disistima papale per la chiesa italiana? Una reazione alla pigrizia astuta con cui la Cei ha rimosso il discorso di Firenze col quale aveva disegnato un nuovo corso bergogliano, indigesto ai vescovi ancora infatuati degli anni ruiniani? Una volontà di additare come esemplari vescovi (e se ottuagenari anche preti o religiosi) a suo avviso esemplari ed esemplarmente marginalizzati nel regime previgente?

Un modo per mostrare gesuitica indifferenza verso gli amici, anche a costo di domandare loro compiti impervi, com’è il caso di mons. Galantino che presiede la più complicata commissione cardinalizia, e lasciarli senza cappello? Forse queste cose insieme. 

Ma anche il segno di una speranza, scritta nelle due nomine curiali di maggior peso. I nuovi cardinali Grech e Semeraro sono infatti, uno per la mansione e l’altro per cultura, teologi della sinodalità della chiesa.

Quelli che sanno che “sinodale” non vuol dire rinviare le decisioni parlandone molto in una sequenza paziente di monologhi: ma prendere decisioni in una sinfonia di voci diverse, rese udibili dall’impegno di santità o di studio, dalla meditazione del diritto o della tradizione, dalla saggezza del governo o del silenzio, dalla saggezza della preghiera o della comunione.

A pochi mesi dal sinodo sulla sinodalità c’è il rischio di una bella assemblea di vescovi, condita con un po’ di uditori a sorpresa e una non sorprendente delegazione di gesuiti, che chiacchiera di sinodalità con una inconcludenza ben nota o che arriva a decisioni che poi il papa accantona giudicandole immature.

Non al papa, ma alla chiesa, servono dunque voci autorevoli. Voci che possano prendere la parola in un concistoro “vero” (non ne serve uno per chiedersi con che faccia alcuni cardinali possono trattare il papa da eretico?).

Voci capaci di guidare un sinodo che impedisca l’egemonia delle frasi fatte, capaci di pensare a come sottrarre la rinascita evangelica che arriverà alla egemonia del fondamentalismo evangelicale e degli ultraortodossi cattolici.

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