La pescheria, lo spaccio e i videogiochi. Marcello e un futuro tutto da giocare

Le due di notte sono un’ora di scarto, un territorio neutro tra chi dorme e chi lavora, tra chi torna e chi parte. Tra chi si sveglia con un’idea in testa e chi insonne non sa che fare della sua vita. Marcello Vona, 39 anni, a quell’ora è quasi sempre sveglio. Ha vissuto tutte le notti possibili lì al Tufello, periferia nord-est di Roma, il suo quartiere. Per lui le due di notte sono il tempo delle possibilità. Dalla sua finestra, al primo piano delle case popolari, guarda il mondo come incorniciato in uno schermo: magazzinieri che iniziano il turno, spacciatori inquieti come lampioni, qualche rissa, ragazzi che scaricano frutta all’alba, e poi con la luce del mattino bambini che giocano, anziane sorrette per un braccio. È un montaggio continuo di marginalità e cura, gioco e bisogno, durezza e sopravvivenza. «Da qui ho visto certi film», dice Marcello. Da lì ha cominciato a immaginare. Le parole della libertà: «Io e quei detenuti che mi hanno cambiato» La pescheria È cresciuto in una famiglia che ha lavorato sempre nel mercato spietato della concorrenza. Prima la frutteria, poi l’intuizione della madre: il pesce. Marcello intanto rincorreva un altro modo di guadagnars i il suo spazio nel mondo: «Progettavo videogiochi. Guadagnavo poc hissimo». Quando la madre è morta, ha lasciato computer e scrivania ed è andato a lavorare a tempo pieno nella pescheria con il padre. Sveglia alle due, mercato di Guidonia, mani nel ghiaccio anche d’inverno: orate, tonni, pesce azzurro. Tre giorni a settimana. Il resto del tempo, l’attesa. Intanto i costi schizzavano, l’Iva pesava, le bollette divoravano margini. «Se pago di più io, paga di più il cliente». Il mercato cambiava, ma sempre nello stesso verso. «Il negozio», come lui chiama la pescheria, diventava un luogo da preservare, un altare dove curare la sopravvivenza di un’idea, di una famiglia. Nella Babele di don Max Caliandro. «Nel villaggio accolgo gli esclusi del mondo» Lo spaccio In questo spazio, dove il lavoro non bastava più, è arrivata un’altra economia. Un amico gli ha proposto di consegnare droga a clienti “sicuri”: «Persone note, ambienti protetti». Marcello ha accettato. All’inizio sembrava semplice: una chiamata, una consegna, contanti in tasca. Poi ha scoperto che dietro c’erano quaranta persone, una filiera precisa. «Ogni sera ricevevo cento telefonate. Facevo due, tremila euro al giorno». Il denaro guizzava veloce come un pesce ma, come un pesce, Marcello finiva intrappolato nella rete: una notte, mentre consegnava la coca, i carabinieri lo intercettano. Viene condannato: due anni di domiciliari. «La pescheria, essendo io proprietario del negozio, mi ha salvato dal carcere». Poi un’inchiesta più grande, l’operazione Coffee Bean, lo ha raggiunto mentre è in vacanza in Sardegna: tre anni per associazione a delinquere. Abituato alla strada, al mercato, alle notti in giro per Roma, ora guardava dalla finestra e le immagini non bastavano più. «A casa non sapevo che fare». Lo streaming È allora che torna una passione lasciata a metà: i videogiochi. Ordina un computer, una console, una videocamera. Comincia a giocare. All’inizio per evadere, poi per vivere storie: «Diventi un personaggio e vivi epoche lontane da te». Come soldato, attraversa guerre mondiali, sbarca in Normandia, combatte con i vichinghi, vive rivoluzioni e conflitti contemporanei. «Devi sopravvivere». Non spara soltanto: spiega, commenta, riflette. «All’inizio nei live ero da solo». Pian piano qualcuno entra nella diretta. Resta. Torna. Così Marcello è diventato uno streamer. In rete si chiama LindoGame: «“Lindo” come mi chiamavano quando facevo parkour per i movimenti belli e puliti». Streamma un’ora e mezza a notte. I suoi follower sono insonni strutturali: guardie giurate, lavoratori notturni, padri che aspettano i figli, donne e uomini soli. Gli scrivono se non va in diretta. Chiedono presenza, più che contenuti. Lo streaming, qui, è un servizio informale di compagnia. Il fenomeno degli streamer cresce ovunque. Nell’ultimo anno Twitch ha registrato circa 7 milioni di canali e migliaia di aspiranti creator. Una promessa di libertà che spesso nasconde nuove forme di precarietà. Marcello lo dice senza retorica: «Non è vero che tutti possono campare di questo». Lui guadagna circa quattromila euro al mese. Altri molti di più, a prezzo di una vita interamente online. «Dormono in diretta. È un messaggio sbagliato. I ragazzi poi non escono, non imparano a stare nel mondo». Dietro la narrazione del successo digitale, Marcello vede crepe profonde. Solitudini, dipendenze, fragilità psicologiche. «In webcam sono sciolti, nella realtà no». Per lui il videogioco resta uno strumento di conoscenza, non una fuga permanente. Nella sua stanza ha montato un greenscreen grande quanto la finestra che affaccia sul quartiere: «Questo schermo fa sparire lo sfondo». Quando lo accende, il Tufello sparisce. Spariscono lo spaccio, le risse, la fatica del lavoro, i geloni alle mani. Al loro posto appaiono mondi lontani, epoche da abitare. È una finestra aumentata, che non nega la realtà ma la sospende. Alle due di notte, quando non va a comprare il pesce, Marcello accende la diretta. Chiama a raccolta i refusi umani del mondo globale e combatte guerre virtuali senza dimenticare la sua: una storia di periferia, di errori e resistenza, dentro un sistema che offre poche seconde possibilità. Un futuro – si spera bello e pulito – ancora da giocare.