Nel 2022 in Italia sono state vendute quasi 11 milioni di bottiglie di Champagne per un valore complessivo all’origine di poco inferiore a 250 milioni di euro. Un numero eccezionale, in costante crescita da anni, che posiziona il nostro paese al quinto posto al mondo per volume, per quantità cioè di bottiglie di Champagne vendute al di fuori della Francia, e al quarto per valore, dopo Stati Uniti, Regno Unito e Giappone.

Quando si parla di Champagne ci si riferisce al più famoso vino spumante al mondo, la cui produzione è consentita unicamente all’interno dei confini dell’omonima denominazione, poco più di cento chilometri a est di Parigi. Una zona che è stata delimitata con una legge del 1927, che si estende per 34.200 ettari su tre regioni e che comprende 319 comuni, comunemente chiamati cru. È qui che lavorano oltre 16.000 coltivatori diretti, i vigneron, 130 cooperative e 370 grandi cantine, le cosiddette maison. Attori che tutti insieme modellano la prima denominazione di origine al mondo per valore, capace di produrre nel 2022 quasi 326 milioni di bottiglie per un fatturato complessivo di 6,3 miliardi di euro, entrambi record storici.

Tutte le sigle

Brut, Dosage Zéro, Rosé, Blanc de Noir sono solo alcune delle tante sigle che è possibile trovare sulle etichette di un prodotto che solo apparentemente è sempre uguale a se stesso e che anzi negli anni ha saputo declinarsi con modalità anche molto diverse, capaci di andare incontro a gusti lontani tra loro. Dal Brut Nature da sole uve di meunier coltivate in biodinamica da un Récoltant Manipulant nella zona dell’Aube alla buonissima Cuvée de Prestige di una cantina iconica di proprietà di un grande agglomerato del lusso, sfoggiata su Instagram ancor prima di essere stappata, fino ai brand presenti della grande distribuzione organizzata (con innumerevoli possibili variazioni, nel mezzo).

Negli ultimi anni sono cresciute le occasioni per consumare Champagne: nonostante sia da sempre il vino che più si associa alle festività e in generale alle celebrazioni la denominazione è riuscita a far passare il messaggio sia spumante capace di accompagnare occasioni anche informali, che possa cioè essere vino non episodico ma giornaliero o quasi, aspetto emerso in particolare durante le restrizioni legate alle gestioni della pandemia da Covid-19.

«Quello dello Champagne è un fenomeno in crescita da decenni», racconta Pietro Palma, premiato nel 2018 come Ambassadeur du Champagne per l'Italia, autore del volume Il suono dello Champagne (Ampelos Edizioni, 2023). «Nel 1950 se ne producevano più di 30 milioni di bottiglie, diventate 180 trent’anni dopo, nel 1980. Una corsa che anche quando rallenta, penso per esempio alla crisi economica del 2008 o alla guerra in Ucraina dell’anno scorso, poi riprende subito velocità. In particolare, negli ultimi anni il Comité (l’ufficio che indirizza le politiche della denominazione, nda) è riuscito a svecchiarlo molto, a far passare un messaggio che ha reso lo Champagne meno esclusivo di un tempo, una denominazione cui guardare più con curiosità che con reverenza. Si tratta di aspetto che noto soprattutto nelle persone più giovani, quelle delle generazioni precedenti può capitare siano ancora un po’ intimorite dalla parola Champagne».

Il successo dello Champagne in Italia è dovuto a molti fattori, continua, «in primis al legame strettissimo, di amore/odio, che abbiamo con la Francia. È vero che qui produciamo moltissimo Prosecco ma è anche vero che nella maggioranza dei casi questo è percepito come prodotto non di alta qualità. Se poi si ha intenzione di spendere una certa cifra, soprattutto a tavola, al ristorante, si va sullo spumante francese».

Lusso residuale

Una cifra che non necessariamente è sempre così alta: se è vero che negli ultimi anni il numero delle etichette molto costose, quelle che guardano al mercato dei vini “super luxury”, è cresciuto, è anche vero che si tratta a livello numerico di quota residuale. Lo conferma Claudio Corrieri, ristoratore e importatore specializzato in Champagne: «In una denominazione così grande, con questi numeri produttivi, convivono prezzi molto diversi. Oltre ai vini da sfoggiare, da esibire, di grandissima qualità, è possibile trovare ottimi prodotti a prezzi assolutamente ragionevoli, in zona è possibile bere molto bene spendendo circa 20 euro. Sono cifre che per forza di cose rendono lo Champagne sempre molto competitivo, in perenne concorrenza anche con la produzione italiana di metodo classico, penso alla Franciacorta o a Trento».

Quello che è cambiato, racconta, è che «c’è stata una “borgognizzazione” della denominazione: negli ultimi 15 anni un grande numero di vigneron si è messo in proprio, si è cioè reso indipendente sia dal punto di vista agricolo che produttivo. Assistiamo così oggi a un numero impressionante di espressioni, di stili, parliamo di parcelle, di specifiche varietà e non solo di vini di assemblaggio. Tutti aspetti che ci raccontano un mosaico impossibile da immaginare anche solo un paio di decadi fa. Lo Champagne si è insomma saputo rimodellare, anche grazie al contributo di questi piccoli produttori si è generato un vero e proprio ampliamento del gusto, ci sono Champagne per tutti».

Una denominazione che prima di altre ha capito l’importanza di concetti quali sostenibilità e basso impatto ambientale, leve che in termini di comunicazione vengono percepite come sempre più centrali, specie dalle nuove generazioni.

Nel 2014 è nata la certificazione Viticoltura Sostenibile in Champagne (Vdc), oggi adottata su oltre il 40 per cento degli ettari vitati della denominazione (un altro 20 per cento beneficia di altre certificazioni ambientali). Le questioni in gioco sono molteplici: controllare l'uso dei fattori produttivi con l'obiettivo di rispettare la salute e l'ambiente, preservare e valorizzare il terroir, la biodiversità e i paesaggi viticoli, gestire responsabilmente l'acqua, gli effluenti, i sottoprodotti e i rifiuti, ridurre la dipendenza energetica e l'impronta di carbonio della filiera.

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