I migranti chiedono di potersi spostare dalla tendopoli per andare a lavorare nei campi. «Se non raccolgo la frutta, non ho soldi neanche per mangiare o per mandare qualcosa alla mia famiglia», racconta Alì (nome di fantasia), senegalese ma da anni, trapiantato nella Piana di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, a pochi chilometri da Rosarno, il paese dove nel 2010 c’è stata la rivolta dei braccianti, dopo che alcuni ragazzini, tra questi rampolli dei clan, avevano usato alcuni lavoratori di ritorno dai campi come bersagli per le loro pistole ad aria compressa.

L’ennesima umiliazione che aveva scatenato la protesta. Da allora poco è cambiato. Con la differenza che ora c’è il Covid a preoccupare. I braccianti africani chiedono che venga predisposta una struttura esterna al campo della tendopoli per chi è in isolamento forzato per via del contagio.

Bomba a orologeria

«Sapevamo che prima o poi, la situazione sarebbe esplosa. Da molto tempo, diciamo alla Prefettura di Reggio Calabria di requisire hotel e adibire luoghi per un'eventuale quarantena. In tutti questi mesi, da inizio pandemia, non c'è stata nessuna risposta», spiega Ruggero Marra dello Sportello dei Diritti intitolato a 'Soumaila Sacko', il lavoratore, impegnato contro il caporalato, ucciso a colpi di fucile due anni fa da un killer locale.

Il risultato? I migranti positivi sono in quarantena, ma sempre all'interno della struttura, in uno scenario di  promiscuità. «Oggi si rischia, a causa di ritardi e inefficaci iniziative, che la grave emergenza sanitaria si trasformi in un problema di ordine pubblico, come dimostrato dalle tensioni che sono nate», dicono i sindacalisti dell’Unione sindacale di base.

Le proteste

Nelle ultime ore, infatti, sono in corso proteste. «Bisogna isolare questo gruppo ristretto di farraginosi che hanno lanciato sassi contro gli agenti della Polizia di Stato, coordinati dal primo dirigente Diego Trotta», spiega Andrea Tripodi, sindaco di San Ferdinando, secondo cui la zona rossa fatta così, non è la soluzione. Tripodi chiede alla Regione Calabria e al governo di intervenire al più presto, per «il superamento della tendopoli ma anche per una strategia risolutiva delle dinamiche migratorie in tutta la Piana».

Le tensioni complicano l’inizio della stagione della raccolta degli agrumi, che richiama in questi territori centinaia di braccianti provenienti da Puglia e regioni del Nord Italia.  A marzo scorso non c'erano focolai o più semplicemente, i migranti non erano mai stati sottoposti a tampone, nonostante le richieste di screening da parte del comune, volontari, associazioni e sindacati.

Adesso però, su trenta tamponi, quattordici persone sono risultate positive. Praticamente la metà. «Un numero che di certo non è reale, perché nella tendopoli sono censiti in 260, senza considerare che non esiste solo questa struttura, ma tanti altri insediamenti abusivi nelle campagne, dove non ci sono controlli», spiega Celeste Logiacco, segretario generale CGIL Piana di Gioia Tauro.

I migranti protestano perché, con l'istituzione della zona rossa, non possono andare nei campi a raccogliere frutta e verdura.

«Io sono risultato negativo, ma in cosa siamo tutelati se i positivi continuano a stare nel campo?», racconta uno dei braccianti. «Sono tanti coloro che hanno scavalcato le ringhiere e sono scappati. Certo non è bello, ma noi non abbiamo nessuna tutela da parte dello stato», incalza un altro.

La tendopoli di Salvini

Dall'altro lato, instaurare un dialogo con i datori di lavoro è impossibile. Fino allo scorso anno, quasi 2mila persone vivevano nell’area industriale di San Ferdinando. Il 6 marzo 2019, la vecchia tendopoli è stata smantellata con un’imponente operazione di sgombero voluta dall’allora Ministro degli Interni, Matteo Salvini, e sostituita da un’ennesima tendopoli (la prima risale al 2013) con un numero di posti nettamente inferiore rispetto alle presenze effettive sul territorio e riservati esclusivamente alle persone in regola con il soggiorno.

Lo sgombero ha, quindi, costretto centinaia di braccianti a spostarsi in altri territori o a creare piccoli ghetti nelle campagne dove si continua a vivere in condizioni igienico-sanitarie precarie, senza acqua e corrente elettrica.

Gli sfruttati

«Chi di fatto non ha un regolare contratto di lavoro, non ha avuto accesso a nessuna indennità Covid», dice Ilaria Zambelli, coordinatrice del progetto Terre giuste di Medu. 

C'è chi non ha la residenza e chi lavora in nero. Secondo Medu, due terzi dei braccianti sono in possesso di un contratto di lavoro ma solo uno su dieci, riceve una regolare busta paga e di questi, la maggior parte si vede riconosciuti i contributi per un numero di giornate molto inferiore rispetto a quelle svolte. 

E non è un problema che riguarda solo chi vive nella tendopoli. Ai container di Testa dell'Acqua di Rosarno, dove è partito il primo focolaio, la situazione è ancora peggiore. Non ci sono controlli all'ingresso, si dorme in 10 in 20 metri quadrati e non viene rispettato nessun tipo di protocollo sanitario o distanziamento sociale.

Così come l' insediamento abusivo in Contrada Russo a Taurianova. Eppure, su tutto il territorio della Piana, sono tantissime le case vuote che potrebbero essere affittate ai migranti. «Ricordiamoci che parliamo di braccianti che lavorano nei nostri campi per garantire la sopravvivenza della filiera, non chiedono case gratis e nessuna elemosina, ma solo gli stessi diritti degli altri esseri umani», chiosano associazioni e sindacati.

© Riproduzione riservata