Dalle previsioni macroeconomiche emerge il seguente quadro: il crollo repentino e inatteso dell’attività economica globale nella prima parte del 2020, è seguito da una graduale ripresa che riporta il Pil ai livelli pre Covid in uno o massimo due anni, senza innescare una crisi finanziaria (prima anomalia rispetto alle precedenti recessioni) grazie alle banche centrali che creano moneta come mai in precedenza.

La recessione anomala

La crisi inoltre non pregiudica la capacità di crescita potenziale delle economie, che nel 2022 ritornano a crescere in linea col trend storico; e non ha devastanti costi sociali (seconda anomalia) grazie a un incremento della spesa pubblica da periodo bellico, che ammortizza la caduta temporanea del reddito di famiglie e imprese. Eventuali recrudescenze del virus, come quella che stiamo vivendo, possono solo rallentare inizialmente la ripresa, ma non cambiarne la traiettoria, anche perché la fine della crisi dipende dai tempi del vaccino e delle nuove cure, previsti per la prima parte dell’anno prossimo.

Stando alle previsioni, dunque, sarà una recessione anomala. A differenza delle precedenti, non trova origine in un disequilibrio economico o in un eccesso finanziario, ma è stata creata “per decreto”, con i lockdown, per contrastare uno shock sanitario. Una recessione intensa, ma breve per via delle politiche monetarie e fiscali non ortodosse che attutiscono le ricadute sociali e finanziarie per il tempo necessario a sviluppare vaccini e cure per il virus.

Secondo le previsioni di consenso, la Cina, con una crescita prevista al 2 per cento per quest’anno riesce ad evitare la recessione, per poi accelerare fino a raggiungere nel 2023 un livello del Pil a prezzi costanti più alto del 18 per cento rispetto al livello pre-covid del 2019.

Stessa dinamica, ma più accentuata per gli Stati Uniti: -4 per cento la caduta del Pil quest’anno, recupero di tutta l’attività persa a inizio 2022, e l’anno successivo un Pil 5 per cento più alto che nel 2019.

Ancora più accentuato l’andamento previsto per l’Eurozona: -8 per cento la caduta nel 2020, pieno recupero nel corso del 2022 e Pil nel 2023 più alto dell’1,7 per cento rispetto al pre-Covid.

Troppo ottimismo sull’Italia

E l’Italia? Secondo la Nota di Aggiornamento del Def, la manovra economica del governo riuscirà a far crescere l’Italia, superata la crisi sanitaria, anche più rapidamente dell’Eurozona e degli Usa: il governo prevede infatti che nel 2023 l’Italia ritornerà a crescere al 2,5 per cento, a una velocità superiore al 2,4 e 2,2 per cento di Stati Uniti e Eurozona, almeno stando alle stime consenso.  

Temo che a Roma si siano fatti prendere la mano. Mi sembra che la dinamica della crescita prevista dal Def, più che una previsione, sia strumentale per cercare di convincere l’Europa che il debito pubblico che stiamo accumulando è sostenibile.

Il problema però è che i cittadini, e non solo gli italiani, percepiscono una crisi economica che avrà ripercussioni molto più gravi.

Le previsioni, specie quelle ufficiali, hanno due difetti: tendono a estrapolare i trend, e quindi difficilmente individuano i punti di svolta, specie se indotti da shock inattesi come il Covid; e riflettono le valutazioni soggettive di chi le produce.

Un’alternativa per valutare lo stato dell’economia sono gli indici che misurano il saldo tra giudizi positivi e negativi da parte delle imprese sulla situazione percepita della loro attività.

Una crisi confinata

Se si guarda all’indice del settore manifatturiero si osserva come negli Stati Uniti e nell’Eurozona, Italia compresa, in ottobre non solo aveva recuperato tutto quanto perso nel crollo di primavera, ma era addirittura cresciuto, riportandosi vicino ai massimi di metà 2018.

Se non si sapesse che c’è la pandemia da Covid, e ci si basasse sull’andamento del settore manifatturiero, si potrebbe pensare che siamo in un periodo di espansione globale.

Se si guarda a quello dei servizi l’andamento è diverso sulle due sponde dell’Atlantico: negli Stati Uniti a ottobre aveva quasi recuperato i livelli di inizio anno; nell’Eurozona e in Italia, dopo aver recuperato tutte le perdite a luglio è tornato a scendere con la seconda ondata, anche se rimane ancora su livelli molto più elevati rispetto alla primavera scorsa.

Nell’insieme, i sondaggi delle imprese non dipingono uno stato dell’economia in profonda crisi, ma piuttosto una crisi confinata, specie in Europa, ad alcuni segmenti del settore dei servizi.

Si può guardare infine alle aspettative sui futuri risultati aziendali. L’idea è che le imprese sono a diretto contatto con i consumatori e con le altre imprese, ne conoscono l’umore e i comportamenti, e riescono quindi prevedere l’andamento del loro mercato meglio di quanto possano fare economisti e sondaggisti.

Ho quindi considerato le stime di fatturato e margini fino al 2022 degli undici settori in cui sono raggruppate le società quotate dell’Eurozona, che includono anche le italiane.

In tutti gli otto settori che producono beni e servizi per i consumatori, industriali e tecnologici, le attese sono che i ricavi del 2021 avranno più che recuperato le perdite del 2020, e nel 2022 saranno superiori all’ultimo anno pre-Covid di una percentuale oscillante dal 3,5 a oltre 10 per cento. In tutti questi casi non solo i ricavi aumentano rispetto al 2019, ma anche il risultato operativo.

Per due settori, servizi di pubblica utilità e farmaceutico, il 2020 potrebbe essere addirittura ricordato come un anno record, visto che già quest’anno ci si attende ricavi in crescita del 19 e 7 per cento rispettivamente rispetto 2019: Covid e green revolution, per alcuni, sono un vero business. Solo in due settori, energetico e bancario, prevale il pessimismo anche oltre il 2020: ma sono settori in declino strutturale, che la crisi da Covid ha solo accentuato. I rialzi generalizzati delle Borse di tutto il mondo riflettono queste aspettative.

Un problema di fiducia

Il quadro che emerge dai dati delle società quotate è quindi anche migliore di quello delineato dalle previsioni macro. Perché allora italiani, hanno una percezione così difforme della gravità della crisi economica?

Basta guardare all’indice di fiducia dei consumatori che in ottobre era solo di poco superiore ai minimi di marzo. Suppongo che i timori per la salute amplifichino la percezione dei rischi economici.

C’è anche però un elemento oggettivo, che riguarda la fragilità della nostra struttura economica. Un elemento troppo spesso trascurato dalle analisi macroeconomiche.

Vantiamo un’industria manifatturiera competitiva e che, come si è visto, sta superando la crisi egregiamente: ma conta solo per il 15 per cento del valore aggiunto prodotto in Italia. Mentre è del 52 per cento quello prodotto nel settore dei servizi di mercato: un settore però eccessivamente frammentato in imprese troppo piccole per essere resilienti in una crisi e soprattutto per stare al passo con la rivoluzione tecnologica di internet che sta radicalmente trasformando proprio questo comparto.

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