«Non possiamo stare con le mani in mano. Perché ora sappiamo qualcosa in più sulla scomparsa di Maria Chindamo. Sì, lei, l’imprenditrice agricola di Limbadi scomparsa quattro anni fa. L’hanno uccisa, lo dicono i pentiti di ‘ndrangheta. L’hanno ammazzata, e hanno triturato il suo corpo con una mietitrebbia o forse un trattore di quelli grossi. Quello che restava l’hanno fatto mangiare dai maiali. Bisogna scrivere, inventarsi qualcosa, una iniziativa. Parlare alla gente e dire che no, un donna giovane non può morire così. Urlare che la barbarie mafiosa non passerà. Dire a tutti i calabresi svegliatevi, usciamo da questo medioevo assurdo che ci afferra per i piedi e ci trascina a fondo, nel pozzo nero della storia. Ribelliamoci contro questi assassini che fanno di questa nostra bella terra un inferno».

Celeste ha le mani che ogni santo giorno della sua vita bruciano nel fuoco della Calabria. «Dobbiamo andare di corsa a San Ferdinando, alla tendopoli dove vivono gli immigrati, bisogna portare i giubbottini catarifrangenti e distribuirli». Perché nel dedalo di quelle strade che attraversano l’area pomposamente definita industriale, del porto di Gioia Tauro, un immigrato è stato investito e ucciso. Si chiamava Gassama Gora. Usciva all’alba per andare a fare lo schiavo nelle campagne, e tornava la sera. Al buio, con la sua bicicletta sgangherata per le strade senza illuminazione del polo industriale senza industrie. Un invisibile. Un punto nero nel buio.

Tra vecchio e nuovo

Celeste di cognome fa Logiacco, ha 38 anni, e di mestiere fa la sindacalista. Segretaria generale della Camera del lavoro di Gioia Tauro. Italia profonda e dimenticata. Calabria sospesa tra un vecchio che non vuole morire mai, e un nuovo che in molti si affrettano a sopprimere nella culla. La mafia che qui si chiama ‘ndrangheta, con il suo impasto di vecchie regole (la famiglia, il possesso, l’omicidio barbaro che serve a rendere ancora più pesante il senso del dominio), e un presente fatto di una modernità sregolata. E il Porto di Gioia Tauro, con le sue due aree industriali con pochi capannoni, i progetti da decenni sulla carta, e le promesse di uno sviluppo che non arriva mai. E gli schiavi dei campi. Africani, braccia invisibili e a bassissimo costo, che servono a tenere in piedi una agricoltura schiacciata dagli interessi della industria di trasformazione e dalla dittatura della grande distribuzione alimentare. Nel gramsciano “interregno” tra nuovo che non arriva e vecchio che si ostina a non morire, si agita la Calabria. Con le sue contraddizioni. I suoi drammi sociali. La sua “invisibilità” agli occhi del paese. «Ho incontrato il sindacato quasi per caso». Celeste si racconta, ma a bassa voce. Nei mesi passati, il Covid ha colpito anche lei. Si è curata, ne è uscita, ma «spesso mi manca il fiato. Ho il respiro ancora corto». «Ho studiato all’Istituto d’arte, poi all’Accademia delle belle arti. Se vuoi posso parlarti del Tintoretto, di Pinturicchio, di un Mattia Preti». Il servizio civile con l’Arci la precipitò dalla bellezza delle arti all’inferno di San Ferdinando e Rosarno. Distese di clementine e arance con vista sulle grandi gru del porto. Baraccopoli abusive, città di lamiere e plastiche, bombole di gas e secchi d’acqua per lavarsi, bere e cucinare. Un inferno di piscio e fango.

I ghetti di Rosarno

«Qualche anno prima c’era stata la rivolta di Rosarno, la caccia al nero e la fuga dei braccianti». Gennaio 2010, uno scontro tra alcuni immigrati e dei balordi di paese, scatena la pulizia etnica. Rosarno, poco più di 11mila abitanti, da sempre dominato da due potenti cosche di ‘ndrangheta, Bellocco e Pesce, scopre all’improvviso i suoi ghetti. Fabbriche abbandonate. Casolari di campagna. Tendopoli occasionali con centinaia di braccianti di colore. Fino a quattromila invisibili indispensabili per la raccolta degli agrumi. Ci sono scontri violenti. I braccianti scappano protetti dai carabinieri. Ne parla l’Italia intera, ma nessuno muove una foglia. «Con Cgil e altre associazioni cominciammo a mettere su uno sportello immigrazione. Quella gente aveva bisogno di tutto. Capire le leggi, prendere coscienza dei diritti. Compilare una richiesta di permesso di soggiorno. Io davo una mano e ascoltavo. Forse in quei momenti, il sindacato decise di mettermi sotto osservazione. Nel 2014 vengo eletta segretaria della Flai, il sindacato dei lavoratori agricoli, della Piana. Ero commossa, conoscevo i braccianti e le loro fatiche. Mia madre è stata una di loro. Nei ghetti di Rosarno e San Ferdinando cominciammo a costruire il nostro sindacato di strada. In testa avevo un obiettivo che veniva prima di tutto il resto: ricomporre la frattura tra i lavoratori bianchi e quelli di colore, unire, organizzare i disorganizzati, rendere visibili gli invisibili».

Anni di impegno duro. Assemblee nei cosiddetti insediamenti informali. «Entrare nella baraccopoli, ormai diventata un paese di duemila abitanti, non era facile. Dovevi conquistarti la fiducia di chi viveva in quelle condizioni. Affrontare la prepotenza dei capi che volevano avere il dominio anche su quella miseria. Dove tutto era un lusso, una conquista desiderata, una stufetta per riscaldarti, un po’ di gas per cucinare, l’acqua, finanche l’intimità. C’erano anche molte donne. La loro condizione era umiliante».

Dov’è lo stato?

«Mi chiedevo dov’è lo stato? Dove il paese civile? Fuori ti scontravi con i caporali, quelli che all’alba prelevavano i lavoratori con i loro furgoni e li portavano nei campi. Erano bianchi ma anche neri, tutti dentro un sistema criminale di sfruttamento e di neo schiavitù. Nel 2015 ci tagliarono le ruote del furgoncino che usavamo come ufficio volante. Era un avvertimento, ma non ci spaventammo. In queste zone la paura fa parte del nostro agire quotidiano. Poi c’erano i piccoli produttori agrumicoli, che vedono il sindacato come un nemico, il diritto a un salario equo come una iattura, che ti raccontano delle clementine comprate a prezzi ridicoli dalla grande distribuzione alimentare, al punto che conviene lasciarle sugli alberi a marcire. Dentro questo vortice ci sei tu, con le tue idee e il tuo ruolo di sindacalista». Il vecchio e il nuovo. Il porto di Gioia Tauro. «Una delle tante occasioni perse in questa terra».

Stiamo parlando di uno dei più grandi porti di transhipment d’Italia, tra i più importanti del Mediterraneo. Milletrecento dipendenti diretti, più 700 indiretti, una potenzialità che neppure la pandemia ha toccato. Nel 2020 a Gioia Tauro sono stati movimentati 3 milioni di teu (il teu è l’unità di misura di trasporto dei container, ndr), numeri importanti. «Se si completassero i piani messi su carta da decenni, con le aziende per la prima lavorazione dei prodotti portati dai container – riflette Logiacco – nell’area si potrebbero creare da 10 a 20mila posti di lavoro. E invece basta guardarsi intorno. Li vedi i lotti vuoti e coperti dalle erbacce? Sono il simbolo di uno dei tanti fallimenti che stanno uccidendo la mia terra».

Dal 2017 segretaria generale della Cgil della Piana di Gioia Tauro, riconfermata nel 2018 («è la prima volta per una donna»), Celeste si occupa anche dei portuali. «Fare il sindacalista qui, significa impattare con i bisogni delle persone, col dolore e la disperazione. Quando ti avvicina un padre e ti parla dei figli costretti a emigrare per trovare un lavoro, e ti chiede cosa fa il sindacato, tu partecipi a un dolore. Quando giri per i paesi e li vedi spopolarsi anno dopo anno, questa è la disperazione. Ho rifiutato di andare a Roma nella segreteria generale. Forse sono presuntuosa, ma penso di poter ancora dare un contributo in Calabria, dove devi batterti per affermare diritti che altrove sono realtà da anni». Nei ritagli di tempo Celeste gira per le scuole. «Ci vado con Jacob Atta, che arrivò qui da bracciante clandestino, ora è un bravo sindacalista della Flai. Lui racconta il suo viaggio nel deserto, la partenza nel gommone, le notti in mare e l’arrivo in Calabria. Parla del pane amaro dello sfruttamento. I ragazzi ascoltano e si commuovono. Anche questo è il sindacato che io amo, uomini e donne che nella tempesta di questi anni costruiscono civiltà e consapevolezza».

Nonostante il respiro corto, Celeste continua a girare nei campi dei migranti. Assemblee, riunioni, uomini e donne da avvicinare e convincere uno ad uno. In questi anni, un populismo ignorante e straccione ha classificato anche lei e tutti i sindacalisti, come casta di privilegiati. «I nostri stipendi sono pubblici, guadagno 1.600 euro al mese, quasi una ricchezza qui in Calabria. Ma non mi sono mai lamentata. Lottare per i diritti, organizzare le persone, conquistare la fiducia degli ultimi, questo sì che è un vero privilegio».

 

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