Come ogni anno la Rai si aspetta dal Festival di Sanremo la conferma di essere ancora in salute, con ascolti e ricavi pubblicitari che vanno a gonfie vele. Sarà ancora una volta un’illusione. La fuga del pubblico dalla tv generalista è in corso da anni e nel 2022 ha avuto una drammatica accelerazione.

Poche cose tengono il loro mercato e Sanremo è forse quella che tiene meglio, insieme al calcio e a sempre più rari momenti di informazione. Sono gli eventi per i quali non c’è alternativa valida alla tv tradizionale. Ma la verità si nasconde proprio nei numeri di Sanremo.

Il crollo

L’anno scorso la Rai ha rumorosamente festeggiato il record della finale, terminata nel cuore della notte con uno share medio del 65 per cento: significa che quella sera 13,2 milioni di persone hanno guardato il festival e 7,1 milioni altri programmi. Le tv parlano sempre di share, mai di numeri assoluti.

Sennò la Rai avrebbe dovuto avvertire che nel 2018 Sanremo ha fatto 35mila spettatori in più rispetto al 2022. Solo che cinque anni fa lo share è stato del 54 per cento, il che significa che non 7,1 ma 11,2 milioni quella sera hanno guardato altre trasmissioni. In cinque anni sono spariti quattro milioni di telespettatori del sabato sera. Sanremo tiene ma tutto intorno si sta facendo il vuoto.

Prendiamo un giorno a caso, mercoledì 25 gennaio 2023. Quella sera nei principali paesi europei (Germania, Francia, Spagna) circa il 30 per cento della popolazione ha guardato la televisione durante il cosiddetto prime time, quella fascia di prima serata tra le 20.30 e le 22.30 che è la più affollata e la più pregiata per il mercato della pubblicità.

Per la precisione il 35 per cento in Germania, il 31 per cento in Francia, il 29 per cento in Spagna. Anche il 35 per cento degli italiani, come in Germania, erano davanti alla tv. Ma se andiamo indietro di un anno, al 25 gennaio 2022, troviamo per gli altri paesi il dato sostanzialmente immutato, mentre gli italiani che guardavano la televisione quella sera erano il 41 per cento. In un anno la tv italiana ha perso il 15 per cento dell’ascolto. Un calo secco, improvviso e senza precedenti. Come se di colpo gli italiani si fossero decisi a rimettersi al passo con l’Europa nel progressivo abbandono della tv tradizionale.

Dati che cambiano

Basti qualche piccolo esempio. Il 22 dicembre scorso, mentre 3,4 milioni di persone seguivano l’intervista della premier Giorgia Meloni nel salotto di Bruno Vespa, c’erano in totale davanti alla tv 19,8 milioni di persone, e tra queste sono state più numerose quelle che hanno guardato Striscia la notizia (3,6 milioni). Il 15 settembre 2009 la partecipazione di Silvio Berlusconi a Porta a Porta ebbe un ascolto simile ma uno share più basso perché davanti alla tv in prima serata c’erano 23,8 milioni di spettatori.

Il giorno dopo, venerdì 23 dicembre, la finale del talent show Ballando con le stelle è stata vista da 4 milioni di persone. Nel 2005 la finale della prima edizione di Ballando con le stelle era stata vista da 8,1 milioni di persone. L’audience totale è stata di 23,3 milioni nel 2005 e di 19,5 milioni a dicembre scorso. Sono spariti quasi 4 milioni di spettatori e li ha persi tutti Ballando con le stelle.

Ultimo esempio, i telegiornali delle 20. Negli anni Novanta a quell’ora c’erano 26-27 milioni di persone davanti alla tv e il Tg1, da sempre prodotto leader del mercato, raggiungeva senza fatica i 10 milioni di spettatori. Il 9 marzo 2019 all’ora dei tg delle 20 c’erano meno di 21 milioni di persone, e naturalmente non tutte hanno guardato il Tg1, il Tg5 o il TgLa7, quasi la metà guardavano come sempre altre cose, telefilm o Un posto al sole.

Ma un anno dopo, il 9 marzo 2020, quando il premier Giuseppe Conte annunciò il primo lockdown per fronteggiare la pandemia, all’ora dei tg si sfiorarono i 28 milioni di spettatori. In un momento drammatico, alle prese con un problema che intaccava direttamente la vita e la sicurezza di ciascuno, gli italiani si sono stretti attorno all’istituzione più tradizionale, il telegiornale. Quella sera alle 21.32 l’edizione straordinaria del Tg1 ha avuto 10,9 milioni di spettatori, il secondo massimo ascolto dell’anno dopo la finale di Sanremo.

La discesa

Poi è successo qualcosa. Per tutto il 2020, complice il lockdown, la tv generalista ha recuperato quasi tutto il mercato che aveva perso dal 2012. Ma, esaurita la pandemia, è stata di nuovo abbandonata, in modo brusco. Il 24 febbraio 2021 c’erano davanti alla tv 25 milioni di persone all’ora dei tg.

Il 24 febbraio 2022, quando è iniziato l’attacco russo all’Ucraina, alla stessa ora c’erano solo 23,8 milioni di spettatori. Il 24 marzo 2022, quando si sono fatti i conti con il primo mese di guerra, l’audience in quella fascia è scesa a 22,2 milioni. I telespettatori sono tornati in massa pochi minuti dopo per vedere Italia-Macedonia, la partita costata alla nazionale di Mancini l’eliminazione dai mondiali in Qatar. Il 26 settembre 2022, il giorno dopo le elezioni politiche vinte dalla destra di Giorgia Meloni, l’audience della fascia tg si è fermata a 20,1 milioni.

Fenomeno Netflix

Il fenomeno è noto. Il mercato televisivo abbandona progressivamente i palinsesti della tv generalista e cambia i suoi modelli di consumo, rivolgendosi alle piattaforme digitali che distribuiscono film e serie in streaming, oppure, nel caso soprattutto dei più giovani, guardando video o intrattenendosi nei più vari modi con il telefonino.

In generale, nel mondo, il business definito “media & entertainment” cresce in modo impetuoso: dal rapporto sul settore pubblicato pochi giorni fa da Mediobanca risulta che le maggiori 20 imprese mondiali hanno raggiunto nel 2021 i 324 miliardi di euro di fatturato, in crescita del 12,2 per cento sull’anno precedente. L’85 per cento di questo giro d’affari è appannaggio dei colossi americani, che occupano i primi sei posti della classifica.

Tra i primi venti ci sono soggetti tedeschi, francesi, inglesi e russi ma nessuno italiano. Netflix, con i suoi 26,2 miliardi di fatturato, vale il triplo di tutto il business televisivo italiano in cui primeggiano tre piccoli dominatori nazionali: Rai, Mediaset e Sky Italia.

Lo dice l’Auditel

In questa progressiva trasformazione globale che vede il mercato abbandonare il modello tradizionale della tv con palinsesto e appuntamenti bloccati (per vedere quel film dall’inizio devi essere puntuale e guardarti tutta la pubblicità che precede i titoli di testa), in Italia è però accaduto qualcosa che nessuno finora si è preso la briga di spiegare, soprattutto agli investitori pubblicitari.

Prendiamo le rilevazioni Auditel sul prime time italiano. Nel corso del 2012 mediamente guardavano la tv, tra le 20.30 e le 22.30, 26 milioni di persone. Negli anni successivi si è consumata una lenta ma regolare erosione (1 o 2 per cento l’anno) che ha portato l’audience del 2019 a 23 milioni e spiccioli, meno 11 per cento in sette anni.

Poi c’è stato il rimbalzo dovuto al lockdown. Nel 2020 l’audience media del prime time è risalita a 25,3 milioni. Nel 2021 è tornata ad adagiarsi sul fondale pre-Covid, a quota 23,5 milioni. Poi nel 2022 il crollo. L’audience media della prima serata è scesa di colpo a 20,1 milioni.

In dieci anni la tv generalista ha perso nella fascia oraria più pregiata il 22 per cento del suo pubblico. Di questo 22 per cento, però, il 14 per cento, cioè due terzi dal disastro, lo ha perso nel solo 2022. Un’accelerazione che dovrebbe preoccupare gli uomini di televisione che si sono sempre adagiati sull’idea dell’erosione lenta, in tempi geologici.

Rete per rete

I dati mese per mese parlano chiaro. A marzo 2022 l’ascolto medio della prima serata cala del 13 per cento rispetto al marzo 2021. Ad aprile la flessione è del 14,5 per cento, a maggio addirittura del 18,7 per cento. A giugno e luglio il vero crollo, meno 21 per cento in entrambi i mesi.

È vero che c’è l’estate e si va al mare, però a luglio 2021 i telespettatori della prima serata sono stati 19 milioni, a luglio 2022 14,8 milioni. Il dato finale dell’anno è in calo del 14,4 rispetto al 2021. E il 2023 inizia peggio: a gennaio gli ascolti del prime time sono del 15,7 per cento inferiori a quelli del gennaio 2022: 20,8 milioni contro 24,7. Basti un confronto: nel 2022 la vendita dei giornali di carta, ormai proverbiale come business a fine corsa è calata del 10 per cento. Meno della tv generalista.

I numeri delle singole reti sono significativi. In dieci anni Italia 1 ha perso il 47 per cento dei telespettatori, Rai 2 il 44 per cento, Rete 4 il 42 per cento. Nell’ultimo anno il record negativo è di Rai 3, meno 16 per cento, in 12 mesi è scesa da 721mila a 604mila spettatori medi sulle 24 ore.

Il divano dopo cena

L’attacco è al cuore del modello classico di fruizione televisiva, il divano dopo cena. Il sintomo più evidente è la crisi dei talk show, che difendono con le unghie e con i denti la posizione in termini di share per nascondere la dura realtà di un pubblico sempre più esiguo in termini assoluti. Il telespettatore, soprattutto se dotato di smart tv, ha imparato come si fa: mentre politici e giornalisti parlano uno sull’altro con toni esagitati, lui schiaccia il pulsante giusto del telecomando e si guarda un film su Netflix.

I numeri della mattina infatti sono meno netti, visto che la concorrenza delle piattaforme digitali a quell’ora è per sua natura meno incisiva. Far fare colazione ai figli per portarli a scuola o vestirsi per correre al lavoro sono attività compatibili con la tv accesa per sentire le ultime notizie e le previsioni del tempo, ma è difficile immaginare che in quel momento qualcuno si metta a guardare una serie tv su Netflix.

Così gli ascolti nella fascia mattutina dalle 7 alle 9 sono calati un po’ meno del prime time, solo del 10 per cento. La prospettiva comunque è negativa, a gennaio 2023 gli ascolti del mattino sono calati del 12 per cento rispetto a gennaio 2022.

Un pubblico anziano

La tendenza appare inarrestabile. Negli ultimi dieci anni il numero di bambini che guarda la tv tradizionale si è più che dimezzato. I telespettatori invecchiano in modo accelerato. Secondo il rapporto Mediobanca, nell’ultimo anno la loro età media è aumentata di due anni.

La cosa può sembrare illogica ma si può comprendere facilmente con un esempio aritmetico. Immaginate che i telespettatori italiani siano sette, e abbiano rispettivamente l’età di 20, 30, 40, 50, 60, 70 e 80 anni. La loro età media è 50 anni, e dopo un anno la loro età media diventerà di 51. Se però nel frattempo il ventenne abbandona il mercato della tv generalista, l’età media dei telespettatori balzerà in un solo anno da 50 a 56 anni.

È vero che, se muore l’ottantenne, l’età media dei cinque telespettatori rimasti scenderà a 42 anni, ma questo dimostra che, se l’età media aumenta ogni anno di più di un anno, vuol dire che i giovani che smettono di guardare la tv sono molti di più degli anziani che muoiono.

Il dato di Mediobanca ci dice che, di questo passo, tra dieci anni l’età media dei telespettatori sarà superiore agli 80 anni. Mentre l’ultimo rapporto Auditel-Censis ci informa che quasi il 70 per cento degli italiani tra 18 e i 34 anni segue programmi e contenuti video attraverso Internet, cioè evitando la tv generalista.

Il dilemma pubblicità

Chi gestisce la tv italiana queste cose le sa, ovviamente. E infatti la tv generalista è sempre di più orientata al pubblico anziano cosiddetto altospendente. Basta guardare la pubblicità, dominata da collanti per dentiere, pannoloni per incontinenti, farmaci e parafarmaci indicati per ogni fastidio dell’età, letti ortopedici, poltrone che ti mettono in piedi da sole e montascale per uomini e donne dalle ginocchia doloranti.

Tutto questo durerà finché dureranno i boomer, dicono con sicurezza i manager. Ma la botta che hanno preso gli ascolti nel 2022 fa sorgere un dubbio: e se gli investitori pubblicitari mangiassero la foglia? Finora l’andamento della pubblicità televisiva appare del tutto scorrelato dagli ascolti.

Nel 2021 l’audience scende del 7 per cento rispetto al 2020 e la raccolta pubblicitaria sale del 13,3 per cento (secondo il rapporto Mediobanca), nel 2022 l’audience scende del 14,4 per cento rispetto al 2021 e la pubblicità flette solo del 7,7 per cento (dati Nielsen). Come se gli investimenti pubblicitari dipendessero più dallo stato di salute delle aziende che dall’efficacia riconosciuta alla pubblicità televisiva. Questo apre anche uno spiraglio all’ipotesi che forme di "pubblicità relazionale" aiutino a sostenere il sistema. Ma questa è un’altra storia.

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