Kinshasa, 30 ottobre 1974. Alle quattro di mattina locali salgono sul ring Muhammad Ali e George Foreman per dare vita all’incontro che era stato ribattezzato “Rumble in the jungle”, la rissa nella giunga. Ali per poco più di quattro round fa due cose: resta attaccato alle corde e provoca Foreman. Senza sosta. Attende, soffrendo, che la furia iconoclasta di George si affievolisca perché sa che prima o poi la forza gli verrà meno.

Lo rende furioso, lo deride. Non che Ali non avesse mai messo in pratica qualcosa del genere, in passato: ma in quella calura asfissiante e circondato da 60mila persone che gli chiedono di uccidere («Ali bomaye») l’avversario, il più grande pugile e forse il più grande sportivo di sempre si allontana dalle corde e quando le energie abbandonano Foreman lo umilia mettendolo al tappeto. E costruendo un insuperato paradigma dell’epica sportiva.

Jannik Sinner, cinquant’anni dopo quel match di pugilato, non ha deriso Medvedev questa domenica a Melbourne. Ma ha dato vita ad un incontro epico forse quanto quello di Kinshasa, con racchette al posto dei guantoni: non sono in pochi, del resto, quelli che ritengono che il tennis altro non sia che un pugilato ripulito del contatto fisico.

Epica pura

Sinner ha conquistato il primo titolo Slam della carriera imponendosi al quinto set seguendo passo passo la lezione di Ali. Ha incassato e sofferto per due set accettando il fatto di essere sottoposto alla stessa “cura” che lui aveva riservato al russo a Pechino nell’autunno scorso: quando, dopo sei sconfitte consecutive, lo ha battuto per la prima volta a colpi di discese a rete, volée vincenti e drop shot letali.

Non si è perso d’animo Ali Sinner: quando le energie mentali e fisiche del russo hanno preso a scemare e quando il peso oscuro che derivava dal disputare la prima finale Slam della vita si è allontanato dai suoi capelli rossi, Jannik ha iniziato un’altra partita allontanandosi pure lui dalle corde e conquistando il centro del ring. Ha vinto i tre set successivi e l’incontro ricacciando indietro il russo a colpi di dritti in contropiede che parevano ganci travestiti. Epica pura.

Via dagli sci

Era dai tempi di Tomba che l’Italia non si fermava, ritardando o addirittura cancellando, il rituale pranzo domenicale. Nel caso di Alberto a inchiodare davanti al video un’Italia che nella stragrande maggioranza non aveva idea di cosa volesse dire districarsi fra i pali sulla neve fangosa di Kranjska Gora o restare in piedi nel gigante spaccagambe di Adelboden era la percezione che a vincere in montagna non fosse un altoatesino che su quelle terre ci era nato e quell’aria pulita aveva respirato; ma un ragazzone di pianura che arrivava dalla città di Dalla e Morandi.

Uno la cui gioiosa sfrontatezza era facile identificarsi e la cui manifesta superiorità di andare oltre ogni errore e annichilire ogni avversario era diventata, più passava il tempo, orgoglio nazionale anche fra i pescatori siciliani.

È quasi uno scherzo del destino che oggi un ragazzo che in montagna ci è nato e vissuto, che ha iniziato la sua vita sportiva a cui era congenitamente destinato sulle piste da sci di Sesto Pusteria all’ombra della Croda Rossa, sia a tutti gli effetti il nuovo volto di quello stesso orgoglio nazionale. Non però a causa dei successi còlti sulla neve: ma sui campi da tennis, quei rettangoli pianorosi sui quali Jannik sfoggia la stessa elasticità e le stesse capacità di scivolamento che ha imparato sulle piste.

Il giocatore più forte

Il successo su Medvedev conferma quanto già si era capito dall’autunno scorso: oggi Sinner è ancora numero 4 della classifica Atp ma di fatto è il giocatore più forte al mondo. E a confermare questa certezza c’è il modo con cui, sotto gli occhi ammirati di Rod Laver, è arrivato al successo.

Al termine di un torneo in cui aveva perduto un solo set contro Djokovic, di set ha dovuto rimontarne due. Tra l’altro in una giornata in cui la sua esplosività era parsa a lungo desaparecida. Proprio questa rimonta ha rafforzato in modo potente quello che appare essere un ruolo che né Tomba né Valentino Rossi né Marcel Jacobs (tanto per citare tre esempi di campioni che in tempi diversi hanno catalizzato la passione degli appassionati italiani) hanno mai rivestito: quello di simbolo di un “personaggio italiano” nuovo.

Che non ha le stimmate dell’eroe soprattutto perché non gli importa di possederle; cui non appartengono atteggiamenti di esagerata autopromozione o di eccessivo entusiasmo, che non si lascia andare a posture calcisticheggianti quando gli riesce un gran colpo: ma soprattutto sorride.

Jannik è uno che lavora e combatte, al massimo stringe il pugno e quando è alle corde (ricordate i tre match point annullati a Djokovic nelle Finals di Davis a Malaga?) cerca di capitalizzare quella situazione per costruire qualcosa di nuovo.

Uscire dalle difficoltà

Il successo di Melbourne ha accresciuto questo ruolo perché da quando è iniziata la sua eruzione (la semifinale di Wimbledon persa con Djokovic a luglio) non gli era mai successo di dover rimettere insieme una situazione tanto compromessa.

A Toronto (primo titolo 1000 della carriera), Pechino e Vienna aveva pressoché passeggiato sugli avversari, Medvedev compreso. Alla Finals di Torino aveva perso in finale con Djokovic a causa di stanchezza e qualche brivido di troppo. A Malaga si era mostrato nei panni di leader assoluto.

Con il successo in quasi 4 ore contro Medvedev è diventato quello che sa uscire dalle situazioni più scomode e senza piano Marshall: quale simbolo migliore per un paese (il nostro) che sta faticando ben oltre le apparenze e la comunicazione governativa e vive la situazione di essere due set sotto come la condizione di partenza di ogni singolo giorno?

Certo, potrebbe osservare qualcuno, se Jannik fosse residente in Italia invece che nel principato di Monaco e dunque contribuisse anche con parte delle sue finanze ai bilanci dello stato, il suo ruolo sarebbe perfetto. Ma nel frattempo Sinner contribuisce al benessere della nazione anche in altro modo.

La terra del tennis

È doveroso domandarsi oggi quanto la vittoria australiana contribuirà a fare dell’Italia una sorta di “tennis land” come nemmeno la Svezia di Borg prima e di Edberg poi e nemmeno la Germania di Becker e Stich riuscirono a diventare.

Una terra in cui il tennis insidi da vicino il numero dei tesserati del calcio, sport principe per eccellenza: oggi la Figc vanta un milione e mezzo scarso di tesserati, la Federazione tennis e padel avvicina i 700mila. È facile prevedere che l’affetto Sinner avvicini al tennis un’ondata di nuovi giovanissimi adepti creando un circolo virtuoso che potrebbe anche ridurre la distanza fra i due mondi.

Specie se nelle scuole si darà spazio anche a padel e pickleball, discipline più facili da ospitarsi negli edifici scolastici nostrani e che potrebbero avvalersi facilmente dell’entusiasmo innescato da Jannik. L’Italia oggi ha tutto (tranne la copertura del centrale di Roma dove si giocano gli internazionali) per diventare un paese unico al mondo dove il tennis e gli altri sport di racchetta sono leader.

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