Ogni regione, ogni città, persino ogni paese, anche il più piccolo, ha il suo prodotto tipico. Basta girare l’Italia, guardare quante sagre ci sono in queste settimane estive per accorgersene. Alcuni prodotti sono censiti, altri no, alcuni conosciuti, altri meno. Nell’ultima rilevazione del ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, se ne contano 321 di prodotti “di origine”: quelli a denominazione di origine protetta, quelli a indicazione geografica protetta o le specialità tradizionali garantite. E non sono neanche tutti. Ad esempio mancano i vini, che pure sono una enormità. In questo lungo elenco si va dalla A, con l’abbacchio romano, alla Z, con lo zampone modenese, passando per salami, salamini, sopresse, formaggi, persino le trote del Trentino.

Ci sono la patata di Bologna e quella della Sila, in Calabria; il pecorino sardo, quello romano e quello toscano; e lo stesso vale per la pancetta, la mortadella, il carciofo, la mela, i limoni, il gorgonzola, le lenticchie. Un elenco lunghissimo che è la fotografia più eloquente di quanto il cibo e la tradizione culinaria siano intimamente connessi alla cultura italiana. E questi sono i prodotti censiti, cioè quelli che hanno avuto la fortuna (per il marketing) di ricevere una certificazione ufficiale. Ce ne sono altrettanti – se non di più - che non hanno certificazione ma che sono altrettanto buoni. Del resto, il nostro è il paese che Mattia Torre ha definito ironicamente a «forma di spuntatura di maiale», dove c’è «questa fissazione della provenienza, come se cambiasse qualcosa, ‘lo vuoi un mandarino?’ ‘no, grazie’ ‘guarda che è di Salerno’ [...] ‘la vuoi la polenta?’ ‘no, grazie’ ‘ma è di su’ ... le cose di giù, le cose di su, [...] il cibo non è più nutrimento ma obiettivo, scopo, chiave di lettura, metro del mondo». Ed è esattamente così.

Certo, Alberto Grandi, nel suo libro Denominazione di origine inventata (Mondadori, 2020) ci ha raccontato, giustamente, che molti dei prodotti che noi pensiamo della tradizione, in realtà di tradizionale non hanno nulla. Ma in questo momento, magari mentre sei in vacanza in uno di quei piccoli paesini dello stivale, dove hai scoperto quel formaggio che fanno solo lì, da sempre, quella antica varietà di frutta che ha un sapore unico ma che al supermercato non riesci proprio a trovare, quel piatto che viene cucinato “come una volta”, in questo momento è perfino secondario se quel prodotto, quel piatto, sia davvero tipico o della tradizione. Quel che conta, in questo preciso istante in cui tu sei in viaggio, è che hai il grande privilegio di poter accorciare le distanze tra chi quel prodotto lo produce e noi che lo mangiamo. Magari avrai la fortuna di incontrare un pastore che ha portato le pecore all’alpeggio – se avrete la possibilità di andare sul Lago della Duchessa, ad esempio, di camminare lungo i sentieri del cammino dei briganti, potreste conoscere Amerigo, un pastore le cui mani sanno di fatica e passione per la terra.

Provate a incontrarli questi produttori, assaggiate i loro prodotti, acquistateli se potete. Perché, al rientro dal vostro viaggio, quando andrete (andremo) a fare la spesa nel nostro supermercato di fiducia, quei prodotti che avete conosciuto in questi giorni, nel carrello non ci saranno, perché, nella maggioranza dei casi, i mercati tradizionali, quelli della grande distribuzione, non li fanno entrare.

Forse troverete qualche prodotto locale, è vero, e alcune insegne dei supermercati li stanno inserendo tra gli scaffali, ma quel prodotto locale, quel produttore, quel metodo di cottura, trasformazione, conservazione, lavorazione che hai conosciuto in quel piccolo paesino dove sei capitato per caso, nel carrello della spesa a cui siamo abituati non lo troverai mai.

© Riproduzione riservata