Le donne hanno titoli di studio più elevati, ma lavorano meno perché il settore le penalizza. Istat fornisce una panoramica del fenomeno: il 65,7 per cento delle 25-64enni ha almeno un diploma, contro il 60,3 per cento degli uomini. Il gap si riduce all’aumentare del titolo di studio, ma anche tra coloro che hanno un alto livello di istruzione rimangono 6,4 punti di differenza. Il vantaggio si inverte in ambito lavorativo: il tasso di occupazione femminile nel 2022 ha raggiunto appena il 57,3 per cento, un dato inferiore di venti punti rispetto a quello maschile.

Le motivazioni di questa inversione sono in gran parte da imputare alla cultura. «Fino a quando non modificheremo il carico di lavoro di cura non retribuito, non ci sarà mai la parità – dice Alessia Mosca, promotrice della legge conosciuta come Golfo-Mosca sulla rappresentanza femminile nei cda –. Il problema è legato a dove si colloca l’onere della cura. In Italia, contrariamente a quasi tutti i paesi europei, c’è un carico sproporzionato sulle spalle delle donne. Se non si cambierà questo approccio nessuna politica riuscirà a far fronte alle discriminazioni». Avere figli rappresenta ancora oggi uno dei principali ostacoli alla carriera delle donne. I dati del dossier della Camera sull’occupazione femminile del 2023 dicono che «una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità».

Per modificare la situazione sarebbero necessari, secondo Mosca, congedi di paternità obbligatori, permessi di cura nei confronti di bambini e anziani. «In un paese come il nostro in cui c’è un invecchiamento della popolazione crescente il tema della responsabilità degli anziani diventerà sempre più grosso, bisogna intervenire modulando la possibilità di dividere il carico di lavoro. Le aziende hanno una grande responsabilità, ma prima di tutto c’è ancora molto da fare a livello culturale».

La distribuzione diseguale del carico di lavoro è uno degli impedimenti alla possibilità delle donne di fare carriera. La legge Golfo-Mosca (12 luglio 2011, n. 120) ha rappresentato una svolta in questo ambito, imponendo quote crescenti di consigliere nei consigli di amministrazione delle società quotate. Gli effetti positivi emergono guardando i dati: nel 2017 la presenza femminile ha superato il 31 per cento, per poi raggiungere il 36,4 nel 2019. «Il perimetro di questa legge però è limitato – continua Mosca – perché lavora sui cda delle quotate o partecipate. Pensavamo che cambiando i consigli di amministrazione ci sarebbe stato un effetto a cascata, ma non è avvenuto. È stato un passo positivo, però non basta».

Gender pay gap

Una delle disuguaglianze di genere più evidenti in ambito lavorativo è il gender pay gap, definito come la differenza tra la retribuzione maschile e femminile a parità di ruolo e mansione. Nel 2021, i guadagni orari lordi delle donne in Unione Europea sono stati in media inferiori del 12,7 per cento rispetto a quelli degli uomini (Eurostat), in Italia questo gap è pari al cinque per cento. Secondo i dati Inps del 2022, la retribuzione media annua per gli uomini è pari a 26.227 euro contro i 18.305 delle donne. Questo fattore è strettamente correlato alla maggiore presenza di lavoro part time femminile: due anni fa le lavoratrici con un contratto a tempo parziale erano circa un milione e mezzo in più rispetto ai lavoratori. Anche in questo caso la motivazione è da ricercare nelle parole di Alessia Mosca: l’impiego part time è tipicamente femminile perché più conciliabile con il lavoro di cura e domestico.

Certificazione parità di genere

Ma i tentativi di far fronte alle discriminazioni in ambito lavorativo ci sono, uno di questi è il Sistema di certificazione della parità di genere, introdotto dal Pnrr. È uno strumento che ha come obiettivo l’incentivo delle imprese ad adottare politiche per ridurre il divario di genere e aumentare l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. «È molto utile – dice Mosca – perché fa emergere buone prassi da cui prendere esempio. L’importante è che questo non passi come un onere a carico dell’azienda. Al contrario, politiche di questo tipo sono garanzia di produttività, favoriscono la diminuzione dell’assenteismo e migliorano le performance».

Strumenti per cambiare

Ci sono poi iniziative che nascono nel privato, un esempio è Digit’Ed, il primo player in Italia per la formazione con oltre 250mila persone formate ogni anno grazie al network con 24Ore Business School, Treccani Accademia, Scuola Greco-Pittella e Accurate. Al centro ci sono percorsi formativi mirati a disincentivare comportamenti discriminatori nei confronti delle donne sui luoghi di lavoro, cercando di costruire una cultura del rispetto per infrangere gli stereotipi. Con questo obiettivo Digit’Ed propone differenti moduli formativi: dai gender bias a come riconoscere le molestie, passando per il genere e la sessualità.

In questo senso, anche le aziende hanno un ruolo centrale. «Siamo tutti d’accordo che dobbiamo raggiungere la parità, ma secondo alcuni studi ci vorranno 131 anni per arrivarci – dice Andrea Laudadio, responsabile Tim Academy & Development e coordinatore scientifico del Master Diversity, Equity & Inclusion di 24Ore Business School –. Condividiamo l’importanza, ma sembriamo passivi rispetto alle tempistiche. Le aziende possono contribuire a ridurre l’attesa. Come Tim abbiamo lanciato la campagna La parità non può aspettare con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le altre imprese a dare un contributo in questa direzione, che è necessaria non solo per le donne ma per la società nel suo insieme».

Il contrasto alle disparità può essere portato avanti in diversi modi. «Per noi fondamentale è il linguaggio inclusivo», dice Rossella Calabrese, ceo di Treccani Accademia, con cui Digit’Ed ha avviato una partnership nel 2022. «Due anni fa Treccani ha lanciato la nuova edizione del vocabolario della lingua italiana, con le professioni declinate al femminile. Il cambiamento deve partire da una cultura inclusiva. E il linguaggio è il primo passo per renderla più naturale e accessibile».

Ma l’inclusione di punti di vista diversi non è unicamente un fattore etico o sociale, è anche una questione finanziaria. Parlando in termini di profitto, i dati dell’European institute for gender equality indicano che raggiungere una maggiore equità di genere entro il 2050 comporterebbe un incremento del Pil pro capite dell’Unione Europea tra il 6,1 e il 9,6 per cento. «Lo scambio di punti di vista, in questo caso maschili e femminili, porta sempre ricchezza, anche in termini finanziari, perché costringe a trovare soluzioni adatte a tutte e tutti», aggiunge Claudio Guffanti, fondatore di Unlimited Views, brand che si occupa di strategie di inclusione per le aziende. Il cambiamento però deve avvenire fin dai primi anni di vita per essere efficace. «È importante che si crescano i figli nel modo meno viziato possibile di pregiudizi. In alcune famiglie ancora oggi la paghetta della figlia è inferiore di quella del figlio. Finisce che le donne si accontentano prima perché pensano di valere meno».

Proprio sull’importanza dell’influenza familiare lavora Valore D, associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere. Secondo lo studio Drawing the future, le aspirazioni di bambini e bambine sono influenzate dagli stereotipi di genere dai sette anni di età. Partendo da questo presupposto sarà lanciata l’11 febbraio, in concomitanza con la Giornata mondiale delle donne e delle ragazze nella scienza, #ValoreD4STEM, una campagna sulla partecipazione delle donne al mondo scientifico. «Per arrivare alla piena parità occorre un lungo lavoro culturale che smantelli quei pregiudizi inconsapevoli che perpetuano una condizione di disparità – dice Barbara Falcomer, direttrice di Valore D –. Dobbiamo iniziare dalla scuola contrastando gli stereotipi che ancora influenzano soprattutto le ragazze nelle loro scelte scolastiche e professionali. Dobbiamo far capire alle ragazze che possono fare e diventare tutto quello che desiderano».

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