Esterno pomeridiano a Greco, periferia nord di Milano, 38 gradi e la desolazione dei pomeriggi d’estate. La piazza di quello che un tempo era un paese è deserta, l’unico rumore viene della fontanella che sputa acqua un po’ a singhiozzo. I pochi rimasti in città sudano e boccheggiano, un anziano è seduto ai tavolini di un bar e si asciuga la fronte con un fazzoletto.

È qui che si trova il Refettorio Ambrosiano, il luogo che più si discosta dalla mensa dei poveri per come la immaginiamo, luogo della solidarietà sì, ma un po’ lugubre, affollato, dove si serve cibo utile a sfamare e nulla più. Tutt’altro: quello del refettorio ambrosiano è un modello replicato in vari angoli del mondo. Nasce nel 2015 nel contesto di Expo Milano dalla volontà dello chef Massimo Bottura e del regista del padiglione zero Massimo Rampello, ed è gestito da Caritas ambrosiana. Le parole d’ordine sono buono e bello. Buono: durante Expo 67 chef internazionali si impegnano a inventare piatti equilibrati e di qualità a partire dalle eccedenze dei supermercati – in questo caso Coop Lombardia – e nasce così un ricettario che viene ancora usato come riferimento per trarre il meglio dagli alimenti che ogni mattina raggiungono la cucina del refettorio.

Bello: 13 tavoli, ognuno diverso ed esemplare unico, dono di designer di fama mondiale, lampade di Artemide, opere d’arte contemporanea di Benvenuto, Cucchi, Paladino, Nannucci e Pesce alle pareti. Entrare al refettorio in un pomeriggio afoso d’estate in una Milano svuotata della sua frenesia produce una sensazione straniante: l’ambiente è fresco e riposante, della musica suona in sottofondo, si viene ipnotizzati dall’andirivieni dei volontari nella cucina a vista costruita dove prima era il palco dell’ex teatro, che è dotata di una meravigliosa cappa in rame simile a una cupola moderna. 

Gli ospiti

Il refettorio ambrosiano dà da mangiare ogni giorno a 120 persone. Sessanta di loro sono ospiti del dormitorio adiacente, altri provengono dai centri di ascolto Caritas – spesso anziani in situazioni di difficoltà economica – altri ancora sono persone senza fissa dimora. Si accede al servizio con una tessera che dura dai tre ai sei mesi: un tempo sufficiente a sentirsi parte di una piccola comunità. «Proprio ieri un nostro ospite è entrato qui raggiante di felicità. Ha raccontato di essere stato ammesso nella lista dei trapianti di reni dopo anni di dialisi. Non sapevamo nulla di questa sua condizione ma si vede che ha sentito che qualcuno, qui al refettorio, avrebbe saputo accogliere con gioia questa notizia» racconta Fabrizia Ferrari, una delle coordinatrici del progetto. 

Ad agosto, quando la città si svuota e le persone in condizione di marginalità si trovano più sole ed esposte, il servizio non cessa e anzi viene rafforzato: la struttura apre anche a pranzo per gli anziani del quartiere che possono passare le ore più calde della giornata in un luogo fresco e accogliente. Ci si prende cura della fragilità economica e sociale delle frange della popolazione a rischio partendo dal presupposto che la qualità del cibo, la bellezza del luogo, funzionano da elementi riparatori e da motore per ten tare di uscire da una condizione di marginalità. Condizione che riguarda sempre più persone, dal momento che sono quasi tre milioni gli italiani costretti a chiedere aiuto per mangiare, rivolgendosi alle mense dei poveri o ai pacchi alimentari. Secondo le analisi di Coldiretti effettuate sui dati del rapporto 2022 del Fondo per l’aiuto europeo agli indigenti, si evidenzia una crescita del 12 per cento rispetto all’anno precedente. 

Per Coldiretti si tratta di «un’emergenza sociale senza precedenti dal dopoguerra la cui drammaticità è evidenziata dal fatto che il numero dei bambini sotto i 15 anni bisognosi di assistenza per cibarsi ha superato quota 600mila, praticamente un quinto del totale degli assistiti, ai quali vanno aggiunti 337mila anziani sopra i 65 anni, e 687mila migranti stranieri».

Dopo la crisi

Con la crisi sociale ed economica prodotta dalla pandemia sono infatti aumentati i soggetti in condizioni di povertà assoluta. In mancanza di reti di protezione sociale basta una piccola rottura nell’equilibrio personale o familiare per trovarsi senza risorse e magari senza un’abitazione. Tra i richiedenti di un aiuto alimentare figurano persone che hanno perso il lavoro, commercianti che sono stati costretti a chiudere le loro attività e lavoratori precari. La maggior parte di loro fa ricorso ai pacchi alimentari, nel tentativo di conservare una sorta di normalità domestica. 

A distribuire centinaia di pacchi alimentari ogni settimana nella città di Milano, sfidando l’afa estiva e raggiugendo le case popolari di via Padova, via Arquà, e Via Porpora, sono i volontari della associazione Mutuo Soccorso, nata a Milano nel 2020 durante il primo lockdown. In quel momento di crisi sanitaria, economica e sociale un gruppo di persone, per lo più gravitante intorno al centro sociale Lambretta, in zona stazione centrale, si è organizzato per rispondere alle numerose richieste di aiuto che provenivano da tutta la città.

«Oggi» racconta Linda Alderigi, volontaria di Mutuo Soccorso, «circa 400 volontari si impegnano per portare avanti la Brigata Lena Modotti, portando la spesa ad anziani e disabili e cassette alimentari per le famiglie in difficoltà economica». Comida Sociale è invece il progetto che si occupa del recupero di cibo, di lotta allo spreco alimentare e di produzione di valore sociale e nutritivo per le persone che ne hanno più bisogno, ancora una volta i senza fissa dimora della città a cui due volte a settimana vengono distribuiti pasti vegani o vegetariani cucinati nella sede di Mutuo Soccorso, spazio occupato che è sotto sgombero. 

Problemi di burocrazia

Il paradosso infatti è che associazioni che hanno il merito di impegnarsi per ricucire un tessuto sociale lacero, riparando i buchi – talvolta enormi – del welfare cittadino o nazionale, debbano entrare in contrasto con l’amministrazione comunale per vedersi riconosciuto un ambiente fisico nel quale operare. Lo spazio occupato Lambretta è ormai ben organizzato per le esigenze di Mutuo Soccorso: celle frigorifere per conservare gli alimenti, una cucina adatta alla preparazione di centinaia di pasti e tutto ciò che questa contiene.

Il sistema ben oliato e ormai punto di riferimento per centinaia di persone in condizione di marginalità rischia di essere distrutto se il Comune di Milano dovesse procedere con lo sgombero senza proporre un’alternativa. I volontari – si va dai giovanissimi studenti delle scuole superiori agli adulti, passando per la fascia molto attiva degli studenti universitari – vedrebbero vanificato il loro sforzo di rendere una delle città più costose ed escludenti d’Italia un luogo meno ostile a chi non rientra negli ingranaggi spesso violenti della produttività e si ritrova ai margini, con difficoltà non solo a fare una spesa dignitosa, ma ancor prima a sopravvivere. 

Se in Italia la povertà ha ancora il volto della fame, quelle che abbiamo sempre chiamato mense dei poveri sono tuttora dispositivi fondamentali per il riconoscimento della dignità di centinaia di migliaia di persone. Un pasto, oltre a sfamare, ha il potere di fare molto di più: si comincia con una cena e si punta a creare un rapporto continuativo di scambio e di fiducia tra enti benefici e ospiti, indirizzando le persone in difficoltà a reti di supporto più ampie che puntano al reinserimento nel mondo del lavoro. 

Torniamo al refettorio ambrosiano, nella piazza di Greco. La mattina il furgone ha scaricato chili e chili di cipolle: ci si ingegna per farne torte salate saporite e nutrienti. Fuori è caldo, si avvicina l’ora di cena, stanno per arrivare gli ospiti. Non c’è tempo da perdere: la mensa dei poveri non va in vacanza.  

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