«Questa è una maledetta emergenza climatica, se non credete alla scienza fidatevi dei vostri occhi», ha detto un esausto Gavin Newsom, governatore della California, durante una visita al lago Oroville, dove è in corso uno degli incendi più gravi nella storia dello stato. L'ovest degli Stati Uniti brucia da settimane, dal confine col Canada al Colorado. Quella a cui stiamo assistendo è la terza crisi incendi globale in due anni, dopo quelle in Brasile nel 2019 e in Australia di inizio del 2020.

La strage

Le vittime sono già 35, 24 in California, 10 in Oregon, un bambino nel Washington. In California sono bruciati 1,2 milioni di ettari. Kate Brown, governatrice dell'Oregon, ha dichiarato che il 2020 sarà l'anno peggiore per perdita di vite e danni causati dal fuoco. Gli incendi hanno sempre fatto parte della storia naturale del paesaggio e contribuito alla rigenerazione delle foreste. A cambiare sono la scala, l'impatto e il comportamento del fuoco.

L'estensione dell'area colpita in California è aumentata del 500 per cento in 50 anni, si parla frequentemente di «megafire», grandi incendi sistemici da più di 40mila ettari di superficie, eventi che da «una volta ogni generazione» sono passati a «diverse volte ogni anno».

«L'apocalisse climatica non è il futuro, è qui e ora» ha titolato il Los Angeles Times. Sfuggire alla realtà è sempre più difficile, non si può comprendere questa crisi degli incendi senza leggerla nel quadro più ampio dell'emergenza climatica. All'inizio della reazione a catena c'è un dato: la temperatura in California è aumentata di 1,8 gradi nell'ultimo secolo, questo agosto è stato il più caldo mai registrato, in Death Valley si sono superati i 54 gradi.

La temperatura è la palla da biliardo che manda in buca tutte le altre, creando le condizioni perfette per incendi su larga scala. La neve si scioglie prima, piove meno, le estati sono aride, gli alberi vanno in stress da umidità e da parassiti. Le foreste diventano secche, piene di piante morte e altamente infiammabili, serbatoi di carburante a disposizione degli incendi.

Molti inneschi sono umani, dolosi o colposi, ma l'incendio nella zona del lago Oroville è stata causato dai fulmini: secondo uno studio uscito sulla rivista Science nel 2014, un grado in più li fa aumentare del 12 per cento.

Il vento secco favorisce una propagazione rapida e imprevedibile, che porta all'aggregazione di roghi nati in luoghi diversi. «Nessun modello a nostra disposizione può prevedere un incendio che si nuove a 15 miglia all'ora», ha detto alla Associated Press Steve Lohr dello US Forest Service.

C'è un altro dato ambientale da considerare, il più preoccupante per chi fronteggia gli incendi e quello con più conseguenze politiche. Secondo il California Department of Forestry and Fire Protection, la stagione del fuoco si è allungata di 75 giorni.

Significa che potenzialmente l'emergenza non ha ancora raggiunto il picco e che le foreste bruceranno fino alle presidenziali di novembre, entrando sempre più nel dibattito elettorale.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ignorato il caso per settimane, prima di decidersi a volare in California. Più l'America va a fuoco, più è difficile sostenere la sua posizione minimalista. Per il presidente, infatti, la responsabilità è solo della scarsa gestione forestale ed è da attribuire ai governatori, tutti Democratici.

«Dovrebbe parlarne con un pompiere», gli ha risposto Eric Garcetti, sindaco di Los Angeles. «Mi sembra che questa amministrazione rappresenti le ultime vestigia della Società della Terra Piatta».

La tempesta perfetta

Gli Stati Uniti sono entrati nella stagione del fuoco con tre crisi già aperte: la pandemia, l'economia e il razzismo. Almeno due rischiano di alimentare la «tempesta perfetta», come l'ha definita con poca fantasia ma una certa accuratezza il governatore della California Newsom.

In questo momento le forze in campo contro il fuoco non sono sufficienti, anche perché i rilasci anticipati per CoVid-19 e i focolai nelle prigioni hanno ridotto le fila dei detenuti che lavorano come pompieri e che rappresentano un terzo del totale.

Inoltre il distanziamento è difficile da rispettare in un'evacuazione di massa: in Oregon l'ordine riguarda 500mila persone, il 10 per cento della popolazione. Infine, il peggioramento nella qualità dell'aria è stato registrato da Vancouver a Tijuana, a Portland e Seattle è ai livelli delle grandi città asiatiche e rischia di aumentare la mortalità e i ricoveri in terapia intensiva.

Poi ci sono gli impatti sociali. Se i «megafire» corrono veloci verso le persone, queste hanno preso a vivere più frequentemente lì dove si verificano gli incendi, nelle cosiddette interfacce urbane di prossimità, dove abitato e foresta confinano.

Secondo la Wildfire Risk Analysis di Verisk, negli Stati Uniti ci sono 4,5 milioni di abitazioni ad alto rischio di incendio, poco meno della metà in California, che a dicembre è dovuta intervenire contro le assicurazioni.

Le compagnie avevano iniziato a ritirarsi dalle aree soggette al fuoco, lasciando 800mila abitazioni senza copertura. Quella californiana per fermarle è una misura provvisoria, dura 12 mesi e non può essere ripetuta: tra pochi mesi serviranno nuovi strumenti legislativi.

I costi delle polizze sono intanto aumentati del 50 per cento in un anno, spesso sono legate al mutuo e rischiano di generare un crollo del mercato immobiliare.

Lontano dall'ovest, gli otto stati più colpiti dalle inondazioni hanno perso 14,1 miliardi di dollari in valore immobiliare in dodici anni.

Mentre Trump cancellava 68 leggi ambientali in quattro anni, gli Stati Uniti si sono scoperti senza difese sul fronte del cambiamento climatico.

© Riproduzione riservata