Non credo siano molti, in Italia, quelli che oggi si ricordano di Vincenzo Muccioli. No, non Mucciòli. Mùccioli, con l’accento sdrucciolo. I più sono in quella fascia d’età che oggi si definisce a rischio Covid; a tutti gli altri il nome evoca solo lontani ricordi, che si addensano un po’ se a quel cognome si aggiunge il nome di “San Patrignano”, che era il vescovo cattolico di Fano, perseguitato dall’imperatore Diocleziano. Così si chiamarono, fin dall’antichità, decine di piccole o piccolissime località del centro Italia.

Insomma, per darvi un aiutino: Vincenzo Muccioli (1934 - 1995) fu il fondatore della “comunità di San Patrignano”, vicino a Rimini, che divenne il più grande centro d’Europa per il «recupero dei tossicodipendenti». Fu un personaggio «molto discusso», ma forsennatamente amato dall’opinione pubblica, che l’avrebbe voluto ministro, presidente, santo subito.

La sua agonia e la sua morte provocarono una grande emozione mediatica, un vero e proprio monopolio del dolore, da cui si divincolò solo il titolo irridente del Charlie Hebdo di allora, il settimanale satirico Cuore: L’inferno aspetta Vincenzo Muccioli, per fortuna loro senza conseguenze. Poi, come tante altre cose, Muccioli venne, e anche abbastanza velocemente, dimenticato.

Non è un giallo

Se ne riparla ora perché Netflix ha messo in onda un documentario davvero notevole, SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, che in cinque puntate ripercorre l’altrettanto notevole storia della “comunità” e del suo guru. Grandi apprezzamenti per il lavoro fatto, per la documentazione (molta mai vista prima, e decisamente conturbante per la gelida violenza che comunica), per lo “spirito del tempo”, per l’equilibrio, le interviste, schiette a numerosi protagonisti della vicenda, il coraggio e la serenità di spirito della ricostruzione di un momento della nostra storia recente, che sembra nello stesso tempo così lontano e irripetibile, quanto moderno e attuale.

Non è un giallo, non è solo una ricostruzione storica: la serie di Netflix è piuttosto una saga dell’uomo solo, che si illude solo brevemente di poter sfuggire al Fato: un vecchio tema, un classico. Per questo le puntate hanno i titoli da grande tragedia: Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta. Per questo il volto del protagonista impercettibilmente cambia, prevede, intuisce quale sarà la sua fine.

L'epidemia

Come tutte le tragedie, ci sono dei prodromi, delle condizioni esterne che la provocano. Nel nostro caso la storia fu uno degli eventi più disastrosi avvenuti nel nostro paese, ovvero la improvvisa, programmata, immissione sul mercato di un’enorme quantità di eroina. La grande operazione di mercato cominciò alla fine degli anni Settanta, che erano stati tumultuosi, moderni e ricchi di partecipazione giovanile.

Nel corso di quel decennio, progressivamente, le speranze di cambiamento e l’ottimismo avevano lasciato il posto a un panorama fosco fatto di repressione e contestazioni violente, uso delle armi da fuoco ed erano culminate con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro.

A questo trauma collettivo seguì una fase, che i sociologhi chiamarono del “riflusso”.  «Moro e La febbre del sabato sera – diceva l’ottimo professor Giorgio Galli – ballarono insieme». Nelle pause, avvenne la grande invasione della droga. E fu davvero un’epidemia, ma a differenza di quella attuale, le cui origini sono nel rapporto andato a male tra uomo e la natura, quella fu davvero la più vile e infame operazione del capitalismo italiano; addirittura, secondo alcune teorie fu un piano preordinato della Cia per punire una gioventù ribelle. Hashish, marijuana vennero ritirati dal mercato e sostituiti da eroina, che costava poco, poteva permettersi una rete di distribuzione capillare ed era prodotta in loco; la Sicilia disponeva allora di decine di raffinerie funzionanti, note a tutti tranne che a polizia e governi.

Il risultato fu presto detto: Cosa Nostra si prese il più grande cash flow che la storia ricordi. Se un tossico spende 50.000 lire a settimana, e se i tossici sono – diciamo – una platea di mezzo milione e se la cosa dura molti anni, potete anche voi fare i conti, anche se non siete laureati alla Bocconi. Significa che Cosa Nostra ha in mano la liquidità del paese, che Palermo comanda su Milano, che può comprarsi industrie e banche, giudici e poliziotti, senza contare la politica, che è poi quella che costa meno: in quegli anni cambiò il futuro economico italiano e “riciclaggio”, invece di “produzione”, divenne la parola di tendenza. Un guaio però si verificò, l’imprevisto del “costo sociale”.

L’eroina in Italia dilagò in quella parte di società dolce, ma anche feroce, che si chiama “la classe media”, distruggendo stili di vita e famiglie, mescolando l’inferno dei poveri con il quieto vivere dei ricchi. C’erano le stazioni trasformate in “piazze di spaccio”, le farmacie notturne con le lunghe file, la microcriminalità, gli zombies, i cucchiaini forati nei bar, il parco Lambro, il Colle Oppio, Ostia, Ercolano, le scritte agli svincoli delle autostrade “dio c’è”, la centrale di spaccio di Fasano nelle Puglie, la disco che sostituì il rock, l’accattonaggio, lo sbattimento, la spada, la mistica del buco, i ragazzi che rubavano in casa le suppellettili di famiglia e se le vendevano per una dose, le ragazze che si prostituivano, sempre per una dose.

Se quell’epoca potesse condensarsi  in una sola immagine, questa sarebbe una fotografia in bianco e nero, scattata in una fredda giornata d’inverno a Milano. Si vede un ragazzo irrigidito su una panchina di un parco pubblico nel quartiere Bovisa; ha dei jeans bianchi, un giaccone, la testa rovesciata all’indietro. È morto. Davanti a lui un prete, un prete vero, con la tonaca, gli impartisce la benedizione. Era uno dei tanti morti di overdose da eroina – nel 1990 furono 1.190 (ufficiali, ma era molto, molto per difetto). Si chiamava Dario R., aveva sedici anni, l’anno era il 1979.

L’Italia aveva bisogno di Vincenzo Muccioli

Nessuno capì, o volle capire, da dove veniva il disastro; si capì invece subito che di epidemia si trattava e che bisognava trovare un riparo. Lo stato, inteso come ministero della Salute, governo, scienziati venne preso alla sprovvista e non sapeva decidersi. I ragazzi che morivano erano vittime o colpevoli? Le droghe erano tutte uguali? Il disastro era provocato dal tilt delle endorfine o piuttosto dal materialismo, dal sessantotto, dalla dissoluzione delle famiglie, dalle controculture giovanili? Di sicuro bisognava cambiare le leggi, troppo permissive. E, per curare, l’unica soluzione che venne trovata fu quella di somministrare, in pubblici ambulatori, il metadone, un oppiaceo simile all’eroina, ma che dava meno assuefazione e di cui si poteva, nel tempo, diminuire il dosaggio. Era comunque qualcosa e aveva una base scientifica, anche se vedere quelle file di ragazzi che aspettavano il bicchierino di plastica con la dose, o se la scambiavano o se la vendevano, trasformava il paesaggio delle città in una distopia del socialismo reale o un normale pomeriggio di Blade Runner.

E così nacquero le “comunità”. In genere erano posti gestiti da religiosi, fattorie in campagna, basate sul fatto che se si tenevano i ragazzi fuori dalle tentazioni metropolitane, all’aria aperta, non avrebbero avuto tentazioni. Alcune erano grandi, quelle di don Mazzi, di don Gelmini, di don Picchi, ma ce n’erano decine e decine di altre che nascevano con una cascina, un prete, un medico a firmare le ricette e l’inevitabile richiesta di finanziamento dalla regione.

E poi ci fu Vincenzo Muccioli. Un omone romagnolo alto un metro e 90 con 130 chili di peso, drop out dall’università, a capo di un “cenacolo” che si diletta di parapsicologia. Lui ha poteri carismatici, impone le mani, è dotato di un “raggio cristico” (ha anche le stigmate nelle due mani, e se le è procurate lui con un trincetto, come fece a suo tempo Padre Pio) ed esercita su una collina di Coriano, in una decina di ettari detti “la vigna del Signore” che la famiglia della moglie gli ha messo a disposizione e dove alleva cani di razza.

Incomincia ad “accogliere” ragazzi tossicodipendenti nel 1978, fonda la “comunità di San Patrignano”, la sua fama esce dal circondario. E la fama è che “con Muccioli se ne viene fuori”. I suoi metodi sono spicci, lui stesso non esita a farli sapere. Dice che i ragazzi che arrivano sono come piante morte e che spetta a lui farli risorgere. Devono obberdirgli, però, in tutto. Niente fumo, niente sesso, niente alcool. Se cercano di fuggire saranno riacciuffati, tutto quello che scrivono a casa viene letto, se sbagliano saranno “puniti”, “isolati”, “legati”. La delazione è incoraggiata, e lui stesso, che vede tutto, passa in mensa a distribuire ceffoni . «Mi comporto come un padre di famiglia», dice lui.

La disciplina è tutto. Sì, ma quanto dura? Quando si guarisce? Quando si potrà uscire nel mondo? Qui Muccioli è molto più vago. La “rigenerazione” è un processo lungo, dice il Fondatore, può durare anni, i fiori sbocciati sono deboli, e comunque deciderà lui, e solo lui. Fuori dai cancelli di San Patrignano, intanto, si formano file di auto: sono tossici che vogliono entrare, portati dai genitori. Dormono in macchina anche settimane. Muccioli li guarda e sceglie… alcuni cominciano a lamentarsi che i raccomandati passano prima. E lui, intanto, è diventato l’uomo più popolare d’Italia; o meglio, di mezza Italia.

Le foto che non vennero mostrate

Siccome il lettore avrà già capito che qui ci sono tutti gli elementi perché la storia finisca male, è bene fermarci sul momento di massimo splendore: siamo nel 1983 e dalla comunità arrivano voci strane, “ragazzi incatenati”, per cui i carabinieri vanno a vedere. E ne restano scioccati. Nella serie televisiva, il giornalista Luciano Nigro, che funge da voce narrante, mostra le fotografie che facevano parte, come prove di accusa, del fascicolo processuale.

A distanza di quarant’anni, comunicano ancora turbamento: ragazzi incatenati alle caviglie e abbandonati in piccionaie, magazzini, tinozze, depositi di animali morti; sporchi, smagriti, con segni di ferite, gli occhi chiusi o spalancati, non più abituati alla luce: sono foto che vengono da un lager, c’è poco da fare. Come potè Muccioli sopravvivere a delle fotografie simili? I manicomi in Italia vennero chiusi quando i giornali pubblicarono foto e video di che cosa erano quelle “istituzioni totali”; Hitchcock, chiamato a esaminare i video di Dachau liberata dagli americani, si raccomandò: «Non montatele, lasciatele grezze, altrimenti diranno che sono false». Addirittura l’America perse la guerra in Iraq quando venne mostrato al mondo che cosa succedeva nella prigione di Abu Ghraib.

Ho chiesto a Nigro la storia di quelle foto. «In realtà, io le pubblicai, su un piccolo settimanale di area Pci che si stampava a Rimini, si chiamava “Settepiù”. Erano pubbliche, qualsiasi giornale avrebbe potuto averle o chiedermele, ma nessuno lo fece. Non il Corriere, nemmeno Repubblica; il Giornale di Montanelli, figuriamoci: era lanciato in una campagna forsennata per Muccioli! Rimasi molto colpito da questa mancanza di coraggio. Eppure, avrebbero cambiato la storia di San Patrignano, quando si era ancora in tempo».

Dunque, c’è un processo, a Rimini, e Muccioli è alla sbarra, ma il pubblico, in particolare genitori di ospiti della comunità urla “vergogna!” quando sarà condannato a un anno e otto mesi. Ricorda Nigro, «in realtà vinse Muccioli», perché la sua condotta (una cosa che noi, adesso, potremmo definire maltrattamenti, tortura, riduzione in schiavitù, abuso di potere, de-umanizzazione, esercizio di sadismo, a seconda di come ci sentiamo) venne accettata dai suoi sponsor e sostenitori, come “necessaria” e “dettata dall’amore”.

Ed era un bello spaccato della società italiana. C’era Red Ronnie, il popolarissimo dj, che si proclamava «soldato di Muccioli», Paolo Villaggio, con un figlio tossico che a “Sanpa” aveva «finalmente trovato un padre», Indro Montanelli per cui Muccioli era un eroe, come lo era stato per lui ragazzo Mussolini, Mike Bongiorno che lo dichiarò «amato dal 92 per cento degli italiani», i conduttori e opinionisti televisivi, da Giovanni Minoli ad Arrigo Levi, Maurizio Costanzo, Guglielmo Zucconi, che se lo contendevano, il segretario della Uil Giorgio Benvenuto che andò a Sanpa a celebrare il primo maggio, mezzo Partito socialista, mezza Democrazia cristiana e soprattutto i coniugi Gian Marco e Letizia Brichetto Moratti, della grande famiglia di petrolieri, in vetta alla Milano bene e dei suoi valori civici. I Moratti non solo finanziavano San Patrignano ma vi passavano il tempo libero, a servire in mensa, a pulire i pavimenti, ad ascoltare affascinati i racconti di Vincenzo e a partecipare con lui alle decisioni importanti, per esempio quale pena dare ai ragazzi riottosi.

Con quella condanna (peraltro ribaltata in appello l’anno dopo), Muccioli aveva vinto. Era passato il principio che se per far del bene si deve far del male, lo si può fare; erano stati messi da parte i diritti dell’uomo, per sancire i diritti dell’“uomo forte”.

A quel tempo “Sanpa” aveva 400 ospiti. Divennero presto duemila, i giudici di sorveglianza ci mandavano i detenuti tossici a scontare la pena, Muccioli era sommerso dai finanziamenti. Si dimostrò un notevole imprenditore: 220 ettari di terreno su cui avviare un’agricoltura moderna, una scuderia di cavalli di razza considerata la più ricca d’Europa, laboratori di falegnameria, sartoria, restauro.

È scoppiata intanto anche in Italia, un’altra epidemia: l’Aids. Si scopre che più di un terzo degli ospiti di Sanpa sono sieropositivi, Muccioli “li prende in carica”, fonda un ospedale privato. Sanpa divenne anche un centro convegni sulla droga e su come combatterla; la nuova legge, che prenderà il nome di Jervolino-Vassalli fu scritta sotto sua dettatura (e fu un disastro perché riempì le carceri di ragazzi incarcerati per aver fumato uno spinello), Bettino Craxi sposò le proposte repressive di Muccioli e si lanciò in una campagna contro «la modica quantità non punibile», caldeggiata invece dai comunisti; la linea dura contro i drogati forgiò politici longevi come Giovanardi, La Russa, Gasparri, Buttiglione (che vedremo in azione, con l’aggiunta di Salvini, vent’anni dopo, a proposito della morte di Stefano Cucchi).

Letizia Moratti vide la sua carriera politica avanzare vertiginosamente: presidente della Rai, ministro della Pubblica istruzione, sindaco di Milano, sempre con San Patrignano in cima ai suoi pensieri. Muccioli non sfuggì al clichè di altri guru. Si costruì la solita grande villa con piscina, fenicotteri, etc; trattò (in contanti, a suon di miliardi) cavalli di razza e si fece beccare al confine svizzero per esportazione di capitali, ornò il viale d’ingresso alla comunità  di gabbioni con tigri, pantere nere, puma, leopardi che rappresentavano l’eroina messa in gabbia dall’unico che l’aveva domata: lui.

La caduta, come un film di mafia

E poi, quello che tutti si aspettano: la caduta, a cui il documentario dà il ritmo e il fremito di un grande film di mafia americano. Siamo nel 1993, c’è una serie di strani suicidi in comunità – ragazzi che volevano fuggire – c’è un ragazzo, Roberto Maranzano, trovato morto, e orrendamente seviziato e avvolto in una coperta di San Patrignano, in una discarica a Terzigno, sotto Napoli, quasi mille km da Sanpa. «Beh, capita», dicono a Sanpa: era scappato, sarà stato ucciso in una lite tra pusher. E invece no: un ospite racconta che Maranzano è stato ucciso a Sanpa, perché ribelle e chi lo ha ucciso è un uomo bestiale, minorato psichico, una specie di Luca Brasi per Vito Corleone. Il delitto, efferato, è avvenuto nella porcilaia, tra quarti di bue, con modalità da cronaca di fatti corleonesi.

Poi Muccioli ha ordinato di andarlo a scaricare a mille chilometri di distanza, dopo avergli fatto un’iniezione di eroina e stricnina e avergli sparato. La prova? In un nastro che ha registrato il suo braccio destro e autista. Si scopre che San Patrignano, come sono state altre comunità chiuse di questo genere, si fonda principalmente su una grande e feroce polizia interna e che i volti puliti dei “risorti” non sono tutto quello che c’è da vedere.

Il processo è lugubre, da fine impero. In attesa della sentenza finale Muccioli si ammala, di che cosa non si sa, il suo volto cambia. Muore a Sanpa, anno 1995, tra i suoi ragazzi e in diretta televisiva. Un Capo, un Santo, uno che ha fatto del Bene, un Vero Italiano.

Sì, ma di che cosa è morto? Il documentario dà credito alla tesi che sia morto di Aids, contratto da uno degli ospiti della comunità (in cui, al momento della sua morte, un terzo degli ospiti era sieropositivo). Viene dato anche credito alla teoria dell’omosessualità (repressa, nascosta dietro la facciata del buon bagnino romagnolo, dolorosa e anche aggressiva) del fondatore di Sanpa.

Una proposta di erigere un monumento a Vincenzo Muccioli a Rimini venne bocciata dall’amministrazione comunale.

Epilogo. La storia racconta  che l’epidemia da eroina cessò la sua fase acuta all’inizio degli anni Novanta, quando la cocaina divenne la droga della classe media. San Patrignano cominciò a svuotarsi. Il figlio di Muccioli, Andrea, la gestì con dubbi criteri e venne sostituito. I Moratti pagarono gli ingenti debiti. Oggi San Patrignano ospita mille persone che soffrono di dipendenza da alcool, cocaina ed eroina.

LA DOCUSERIE

Sanpa. Luci e tenebre di San Patrignano documentario in cinque puntate è disponibile su Netflix dal 30 dicembre 2020. È stato ideato da Gianluca Neri che è anche produttore assieme al bolognese Andrea Romeo, Nicola Allieta e Christine Reinhold, per la regia di Cosima Spender.

È stato realizzato utilizzando decine di archivi filmati e con le interviste a quindici protagonisti di quell’esperienza, tra cui Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo. Nei titoli di coda anche una lista di persone che non hanno voluto partecipare al progetto. Tra questi Gian Marco e Letizia Moratti, e Claudio Sabelli Fioretti, direttore di “Cuore” e autore di quella prima pagina che fece scandalo.

La comunità ha comunicato ufficialmente che si dissocia dal film, perché dà una visione negativa di San Patrignano.

Una  grande parte del racconto è affidata a Walter Delogu, il braccio destro di Muccioli che lo “tradì”, rivelando la sua partecipazione al delitto Maranzano. Walter è il padre di Andrea Delogu, la nota conduttrice televisiva, autrice, nel 2014 del libro La collina (edizioni Fandango Libri), in cui narra – in un misto di ricordi affettuosi e crudi – la sua infanzia nella comunità.

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