Michela mi disse che stava per morire l’autunno scorso, tra un piatto di panelle e un vassoio di polpettine di tonno alla Favignanese, specialità della “Gensola”, nella piazzetta omonima di Trastevere. Appena accennai lo sbigottimento che mi prese la gola, lei disse sorridendo: «Non rompere le palle, niente lacrime. Ho cinquant’anni, ma se mi guardo indietro è come avessi vissuto sei, sette vite. Va bene così. Però voglio fare ancora tante cose prima che i miei figli gettino le mie ceneri nel mare coreano, e non voglio avere attorno gente che frigna. Prendiamo un cannolo?».

Murgia non era solo una delle persone più intelligenti e “rapide” (dice bene Nicola Lagioia) che abbia mai conosciuto, la scrittrice potente di Accabadora, l’intellettuale rivoluzionaria, la Morgana femminista, l’indipendentista radicale (sarda, catalana, basca: l’autodeterminazione era probabilmente radicata in una delle catene del suo dna) e la difensora dei diritti degli ultimi e della comunità Lgbtqia+.

Michela era anche una fuoriclasse dell’esistenza. Una donna con un carisma innato – nel linguaggio teologico, che talvolta citava come studiosa e come cattolica, il carisma è il dono del padreterno (che lei credeva queer) a un credente, regalo di cui beneficia per osmosi l’intera comunità – a cui era difficile rimanere indifferenti.

Era magnetica, formidabile quando incrociava storie personali, ragionando parallelamente di politica, di K-pop o del femminismo di Santa Chiara: un eclettismo modernissimo che le permetteva di unire in un unico articolato retorico fatti apparentemente svincolati, ma che le sue sinapsi collegavano senza sforzi disegnando prospettive non solo originali, ma disvelatrici.

Michela era un fenomeno della natura, e come promesso anche negli ultimi mesi di vita ha fatto un sacco di cose. Usando (ancora, e ancora) il suo corpo diventato da tempo “politico” per pubblicare un nuovo romanzo sulla malattia mai «aliena» ma «parte di me», per comprare casa, per duellare con fascisti, meloniani e minnitiani su Instagram. Più di tutti i pochi intellettuali rimasti ne aveva capito il potenziale, e quando le chiedevo di scrivere per Domani si ritraeva sempre, spiegando che i giornali l’avevano delusa, e che i social per lei erano «l’unico luogo sensato per comunicare senza mediazioni». Fino alla fine si è esposta senza remore, mostrando da un lato il petto a chi la detestava per le sue idee di pura libertà, dall’altro costruendo legami sempre più stretti con chi la amava e la seguiva come modello di forza e vigore, ed esempio etico da imitare. L’impegno civile e letterario per Murgia non era infatti solo lavoro o passione, né tantomeno vanagloria per una donna che è riuscita dalla piccola Cabras a diventare, passando pure dai centralini dei call center alle portinerie notturne, la più influente intellettuale italiana della sua generazione.

L’impegno di Michela era innanzitutto un dovere morale. Una costrizione, quasi, di un’anima generosa ma capace di iracondia di fronte ai mille abusi del potere, e ai silenzi complici delle scimmiette mute e cieche che pure a sinistra, per quieto vivere o interessi indicibili, rifiutano il conflitto necessario o mandano in prima linea gli altri, senza mai rischiare in proprio.

Davanti a soprusi, violenze di genere, ingiustizie sociali per Michela la pugna era semplicemente inevitabile. Nel campo di battaglia andava armata solo di neuroni (ne aveva a tonnellate, lo ripeto) e di parole che adoperava con maestria magica, incantando amici ed avversari che hanno provato a colpirla fino all’ultimo. Sarei disonesto a dire che non l’hanno mai scalfita: se ti esponi sempre, rimanere illeso è impossibile.

Murgia lascia un vuoto gigantesco, perché era una delle pochissime pensatrici italiane a offrire la sua anima e il suo corpo all’agone politico del paese. In questi tempi cupi, è necessario che la sua lezione non vada perduta, e che chi ne ha la forza e le capacità ne raccolga il testimone. Ma Michela ci mancherà. Sempre.

 

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