Con 2 milioni e 100mila spettatori e il 10,5% di share, la prima volta di Che tempo che fa su Nove è stata un indiscutibile successo. Numeri che arrivano a oltre 2 milioni e 600mila se consideriamo il simulcast, ovvero la somma di tutti i canali del gruppo Warner Bros. Discovery (da Real Time, da Giallo a Motor Trend) che per l’occasione sono stati accesi su quello che, a tutti gli effetti, era considerato uno degli eventi televisivi della stagione.

E non vanno dimenticati gli ottimi risultati dell’anteprima e della seconda parte del programma, quella con il “tavolo” degli ospiti, e altre metriche rilevanti come i “contatti” (oltre 7 milioni e 600mila), ovvero le persone che in qualche modo sono state intercettate, transitando sul programma, attratte dalla curiosità e dall’impatto che il passaggio di Fazio dalla Rai a un canale privato ha generato nel dibattito pubblico nelle settimane precedenti.

Il meccanismo solido

Fin qui, la “fredda” (ma cruciale) cronaca dei numeri, il primo indizio. Poi c’è il contenuto, sempre uguale a sé stesso, in una continuità volutamente esibita di toni, oggetti, simboli e rituali. C’è il tavolo centrale, la batteria di ospiti che alterna informazione e intrattenimento, l’acquario, lo studio, Filippa Lagerback, l’impertinenza annunciata di Luciana Littizzetto, la stessa prossemica e gli stessi felpati cambi di registro del conduttore. «Siamo sempre noi», scandisce Fabio Fazio.

E tutto ciò, in fondo, è il secondo indizio di una spia che si faceva sempre più sensibile con l’avvicinarsi dell’esordio: quella di un servizio pubblico che aveva finito per privarsi non tanto e non solo di un programma storico, ma di un intero meccanismo consolidato, di un delicato sistema di equilibri televisivi, rassicurante per una larga fetta di pubblico e di investitori, tutto costruito intorno alla figura di un Fazio abilissimo a solleticarne gli umori, a favorire la retorica del “ripudiato”, dell’esule che trova approdo altrove, lontano il più possibile (anche nei tasti del telecomando) da chi non lo avrebbe rinnovato, o non avrebbe mostrato fino in fondo la volontà di farlo.

Fazio è il suo pubblico; e la migrazione in massa degli ascolti da Raitre a Nove ne è stata logica (ma per nulla scontata in uno scenario in cui l’identità dei canali ha ancora un forte grado di sedimentazione) conseguenza.

La prova che l’operazione di Warner Bros. Discovery fosse vincente ce l’ha data il terzo indizio: il livello del dibattito. Dopo l’anteprima in cui mattatore è stato l’inarrivabile Nino Frassica, il programma è entrato nel vivo affrontando naturalmente il conflitto israelo-palestinese con un trittico di giornalisti della tv e dalla carta stampata (Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera, Massimo Giannini, fresco di ritorno a Repubblica, e la curiosa presenza di Giovanni Floris, volto storico della “vicina” di numerazione La7).

Un mix che ha voluto sottolineare affidabilità e pluralità degli sguardi, poi arricchiti dalla presenza di David Grossman in collegamento e di Liliana Segre in studio, oltre alla collaborazione informativa con CNN, brand che non ha bisogno di presentazioni e che appartiene allo stesso gruppo editoriale, e che ha rappresentato forse l’unica vera novità rispetto al passato.

Fare tutto ciò significa aver ben chiara in testa un’idea di servizio pubblico che non passa dalla collocazione o dalla proprietà dei canali, ma dal senso di una missione, dalla volontà di attraversare la complessità e le contraddizioni della contemporaneità senza abdicare alla logica dello scontro, della “pancia”, della semplificazione pruriginosa e disturbante.

Il brand Fazio

Ed è la stessa volontà che porta a ospitare l’ex calciatore ucraino Andriy Shevchenko, recentemente nominato consigliere di Zelensky. Oppure, cambiando completamente registro, a dialogare con la Gialappa’s Band e il Mago Forest, in onda negli stessi giorni sulla “rivale” Tv8; quasi a voler superare gli steccati della concorrenza, a (ri)accreditarsi come spazio di promozione e valorizzazione di tutto ciò che di meglio la televisione e l’intrattenimento in senso largo possono offrire. E poi, altri classici “fazieschi”, come Burioni e la Vanoni, a ribadire la continuità, a confermare, in fondo, che per la prima puntata è stato meglio osare con moderazione, puntando sul sicuro, sull’atteso, su una squadra che ha solo cambiato casacca ma non pelle.

Il difficile arriva ora, con l’inevitabile necessità di una conferma, da un lato e il mantenimento dello stesso livello di ospiti e spettacolo, dall’altro. E con un tema all’orizzonte: il brand Fazio sarà “corpo estraneo” oppure avrà un effetto sull’intero canale Nove, l’ultimo in ordine di numerazione del mosaico generalista?

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