A quaranta anni di distanza quel 14 ottobre, forse per una generazione che allora non c’era, è una data muta. Per chi allora aveva venti anni segna uno spartiacque. Anche per questo è bene riepilogare la scena. Un luogo: Torino. Un simbolo: la Fiat. Uno spazio pubblico: la piazza. Un’azione: un corteo.

Quel 14 ottobre, se ci limitiamo a questi quattro elementi, non aveva niente di diverso rispetto a molte scene del Novecento e del conflitto industriale. Comunque, a partire dagli anni Sessanta questi quattro elementi a Torino erano la consuetudine. C’è un quinto elemento da considerare: l’attore che compie l’azione e che è il protagonista di quella scena.

Per un lungo tempo nella Torino degli anni ‘60 e ‘70 l’attore del conflitto industriale era stato il lavoratore di linea, sindacalizzato, militante politico, di sinistra, spesso un individuo che parlava un dialetto non piemontese.

Quel martedì 14 ottobre 1980 l’attore protagonista non aveva nessuna di queste caratteristiche. Quel corteo, che sfila nel centro della città, in una città che con sorpresa guarda quelle persone che camminavano in silenzio (solo il rumore delle scarpe si sente) non è fatta di operai, è composto da quadri intermedi, un attore a lungo silente.

Li guida Luigi Arisio (classe 1926 e deceduto pochi giorni fa, il 29 settembre 2020) promotore e dirigente del Coordinamento dei capi e quadri Fiat e che ora, senza aprire bocca, si prende la piazza e la parola. In una città che da circa 35 giorni (dal 10 settembre 1980) assiste al blocco della sua fabbrica simbolo, in risposta alla minaccia di cassa integrazione chiesta dalla direzione aziendale per 24.000 addetti, il corteo del 14 ottobre manda a dire al sindacato, ma anche a tutta la città, che la Fiat «non è solo gli operai» e che il sindacato non rappresenta il loro futuro, né il loro presente. Due giorni e l’occupazione finisce. Tutti rientrano a lavorare. La prova di forza è finita. La Fiat ha vinto.

Per molti aspetti il 14 ottobre costituisce un “luogo di memoria”. Meglio: un “punto di svolta”. Se rimaniamo agli attori che si confrontano in quel giorno, in quella piazza si propone come protagonista “un’area sociale” che chiede di essere ascoltata, di far parte dell’opinione, cioè di “avere un peso”. Ha delle domande, non ha delle soluzioni.

Un luogo di memoria

Allo stesso tempo gli attori che fino a quel momento sono stati i protagonisti o le voci principali in scena, appaiono stavolta come semplici “spettatori”.

Tre attori – poco importa se assenti o fisicamente presenti lì – si misurano quel giorno: i ceti medi; la manodopera di fabbrica; i dirigenti di azienda e il mondo complessivo dell’impresa. Se fino a quel momento i ceti medi erano una realtà che traeva forza identificandosi con i due attori principali del conflitto di classe otto-novecentesco, ora chiedono un proprio spazio non solo di rappresentanza, ma soprattutto di “voce”. Non solo.

La richiesta è anche verso la costruzione di un’agenda, di un’idea di sviluppo e di benessere che ritiene non più percorribile né le politiche di welfare né le mediazioni su cui si è tenuto complessivamente il modello di sviluppo sociale del secondo dopoguerra.

Quel 14 ottobre 1980 finisce un tempo, e non solo a Torino. Un tempo che marca una nuova stagione: Keynes va in soffitta. Ora sono i cardinali del neoliberismo a dettare i punti essenziali dell’agenda economica e sociale.

Il sogno non è più la riduzione del divario tra ricchi e poveri, redistribuendo, ma diventare tutti ricchi (se ci si riesce). Il risultato quarant’anni dopo, oggi, è molto lontano dal sogno.

I ceti medi

La richiesta di protagonismo dei ceti medi, fenomeno non solo italiano ma proprio di tutte le società industriali nell’Europa degli anni ’80, allude anche ad altro.

Per esempio, a un malessere che non è solo sociale ma anche culturale, di cui si fanno interpreti alcune realtà del mondo cristiano in Europa (in Italia sono gli anni della nascita e della crescita di una realtà ecclesiale come Comunione e liberazione e del Movimento popolare).

Che significato hanno quei laboratori sulla costruzione delle sensibilità politiche e culturali della dottrina sociale della chiesa in Europa? Quanto pesa la crisi della laicità in questa nuova stagione? Quel processo non lascia insensibili le sinistre.

A differenza però di quegli attori, che ora si percepiscono come protagonisti di un nuovo tempo, a sinistra, nei confronti del cambiamento, si registrano molto spesso resistenze. Non è casuale che pur con l’autorevolezza che hanno Willy Brandt, Olof Palme e Bruno Kreisky, il percorso riflessivo che essi avviano all’indomani della crisi petrolifera (1973) e soprattutto in conseguenza del rapporto del Club di Roma su I limiti dello sviluppo (1972), ciò che essi propongono alla fine di quel decennio sia sostanzialmente accolto con molta diffidenza.

Il “rapporto nord-sud” che chiede al mondo socialista di ripensare l’idea di sviluppo, di accantonare il sogno della crescita all’infinito, significa una messa in discussione radicale della mentalità, delle culture e delle parole d’ordine delle sinistre europee.

Quanta consapevolezza c’è nelle socialdemocrazie europee che la propria agenda storica e la propria identità politica siano ormai giunte alla fine?

Il mondo sindacale

Questa domanda, che non ha ancora una risposta convinta e che ancora stenta a darsi perfino un vocabolario, riguarda anche le forme di organizzazione e di rappresentanza non solo della sinistra politica, ma anche del mondo sindacale.

Quel mondo che in quella piazza, il 14 ottobre 1980, non c’è, ma che il giorno dopo deve affrontare un percorso di riscrittura del proprio progetto.

La riscrittura del welfare penalizza i ceti svantaggiati; li priva spesso di una tutela pubblica; li lascia in balia di un “libero mercato”; obbliga a ripensare forme della tutela e della solidarietà.

Il fine è proporsi di ritrovare un’identità ma anche forme di tutela che nascono dall’idea di coltivare la salvaguardia della comunità di appartenenza, più che la “solidarietà di classe”.

Figure che evocano le strutture associative, le forme della protezione sociale e di legami di cooperazione proprie del mondo del lavoro ottocentesco.

La sfida, di fronte alla crisi del welfare socialdemocratico, ma anche della capacità di contrattazione del sindacato (il nodo non solo sconfitto ma ora irreversibilmente in affanno dopo la scena del 14 ottobre 1980), è la costruzione di forme associative che si muovono per tutelare la qualità del lavoro, per salvaguardare i servizi e per garantire il minor arretramento possibile.

Quanto questi processi di cambiamento, che comunque non sono un ritorno a forme precedenti alla grande industria, obbligano a modificare il concetto stesso del lavoro e del lavoratore che si riconosce in una competenza o che ripensa una competenza?

Questa modalità non modifica anche le forme di lotta? Non è forse vero che emergono così conflittualità interne ai diversi mondi del lavoro? E queste nuove conflittualità non chiedono forse di sviluppare nuove forme della rappresentanza e anche nuove idee della contrattazione?

Il tema del lavoro

La crisi della grande impresa e la necessità di ripensarsi rispetto al lavoro aprono nuovi percorsi e costringono a farsi nuove domande. Per esempio: come costruire nuove competenze o nuove forme dell’offerta di lavoro? Quanto questa struttura discende dalla formazione generale e professionale, dalla classe, dall’età o dalla rete sociale in cui ci si è formati e si è cresciuti?

O quanto, invece, dipende dalla tradizione associativa dei distinti mondi del lavoro e dei movimenti nazionali o regionali dei lavoratori?

Ma – si potrebbe aggiungere – quanto tutto questo è in relazione: con le culture popolari di cui si è espressione? Le forme religiose in cui ci si riconosce? I modelli industriali di organizzazione in cui si è fatta esperienza e con cui si è consolidata la propria identità?

© Riproduzione riservata