L’Ilva continuerà a produrre. Il Consiglio di stato ha annullato l'ordinanza n. 15 del 27 febbraio dell’anno scorso del Tar di Lecce, che riconoscendo la legittimità dell'ordinanza del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ordinava lo spegnimento dell'area a caldo dell'ex Ilva.

«Questa sezione ritiene che gli elementi emersi dall'istruttoria processuale abbiano fornito un quadro tutt'altro che univoco sui fatti dai quali è scaturita l'ordinanza contingibile e urgente. Anzi, quanto è emerso è più incline a escludere il rischio concreto di un'eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina». In pratica, i fumi emessi dallo stabilimento non mettono a rischio la salute dei cittadini. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza.

L’udienza davanti alla Quarta sezione si è svolta lo scorso 13 maggio, su ricorso presentato da ArcelorMittal. A distanza di 41 è stata depositata la sentenza: 62 pagine di motivazioni firmate dal presidente del Consiglio Raffaele Greco e dall’estensore Michele Conforti.

Le motivazioni

Con l'ordinanza n. 15 del 27 febbraio 2020, il sindaco di Taranto aveva ordinato ad ArcelorMitta e a Ilva, in qualità di gestore e proprietario dello stabilimento siderurgico «ex Ilva», «di individuare entro 60 giorni gli impianti interessati da emissioni inquinanti e rimuoverne le eventuali criticità, e qualora ciò non fosse avvenuto di procedere nei 60 giorni successivi alla sospensione delle attività dello stabilimento», si legge nel testo dell’ultima sentenza. L'ordinanza era stata emessa a tutela della salute della cittadinanza, a seguito di episodi di emissioni di fumi e gas risalenti ad agosto 2019 e febbraio 2020 e delle successive verifiche ambientali e sanitarie.

Le due società avevano dunque impugnato l’ordinanza davanti al Tar pugliese, sezione di Lecce, che in primo grado aveva respinto il ricorso a seguito di «un'approfondita istruttoria». Successivamente, Mittal e Ilva hanno chiesto al Consiglio di stato di annullare il provvedimento, che ha accolto la richiesta, perché «l’istruttoria procedimentale e quella processuale non evidenziano un pericolo ulteriore rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale e gestito attraverso la disciplina dell’Autorizzazione integrata ambientale». Insomma, che dallo stabilimento si innalzino enormi nubi nere è normale, ordinario.

Secondo il Consiglio, inoltre, la sentenza del Tar e la richiesta del sindaco di Taranto si basano sul principio di precauzione: le emissioni potrebbero ripetersi. Ma non basta, anzi «si rifiuta un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente». 

In giurisprudenza, infatti, una situazione di pericolo non può essere ipotizzata per essere presa in considerazione. Deve, al contrario, essere potenziale e incidere «significativamente» sulla salute dell’uomo e sull’ambiente, in questo specifico caso, per esempio.

Senza tralasciare il fatto che, se si parte da un principio di precauzione, dovranno essere le autorità competenti a far sì che i rischi non si ripetano o più semplicemente a evitare che questi abbiano un impatto significativo. Chiudere a caldo gli impianti invece, secondo i giudici, sarebbe spettato direttamente alle aziende, ArcelorMittal e Ilva.

Due anni di ricorsi

I fatti riportati nelle sentenze risalgono ad agosto 2019, il periodo, cioè, in cui si sono verificate alcune emissioni di fumi provenienti da uno dei camini dello stabilimento siderurgico.

Il 23 agosto 2019, il comune ha chiesto all’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione ambientale (Arpa) e all’Azienda sanitaria locale se ciò avrebbe potuto avere delle conseguenze per capire meglio come agire. L’Arpa aveva risposto che dalle valutazioni dell’impianto risultano «alcune criticità gestionali e anomalie tecniche». 

Passano alcuni mesi e la preoccupazione sui rischi sanitari delle emissioni aumentano. Il 27 febbraio 2020, quindi, il sindaco Rinaldo Melucci ha presentato l’ordinanza n. 15, chiedendo la risoluzione di «eventuali criticità» entro 60 giorni. 

Il gestore dell’impianto, ArcelorMittal, aveva impugna il provvedimento e ne chiedeva «in via cautelare» la sospensione, parlando di «eccesso di potere» da parte del comune. Inoltre, secondo Mittal, era impossibile che ci sarebbero stati dei rischi concreti, sia ambientali sia di salute pubblica, dal momento che le emissioni erano in linea con i limiti previsti dall’Aia.

Eppure, come si legge nella parte di documentazione relativa alla sentenza di primo grado, era stata rilevata la presenza di ulteriori sostanze inquinanti presenti nell’atmosfera e non soltanto quelle previste dall’Aia. Sostanze che potevano essere correlate con patologie, in particolare oncologiche. 

ArcelorMittal ha presentato così un secondo ricorso, il 18 febbraio 2021,  definendo la sentenza del Tar errata.

Il ribaltamento della sentenza

Il Consiglio di stato, cui ha fatto ricorso ArcelorMittal ripercorre, tappa dopo tappa, gli eventi, dalle esalazioni del 2019 alla decisione del Tar, ribaltandola.

Infatti, se per il tribunale amministrativo di Lecce, il provvedimento di Melucci era valido, per i magistrati di Roma, è proprio la sua carica di sindaco a far cadere le accuse. Secondo gli articoli 50 e 54 della Costituzione, un sindaco può agire in casi di emergenza sanitaria, soprattutto se pubblica, ma non se si fa riferimento a «vapori, gas o altre esalazioni provenienti da fabbriche» sottoposte all’Autorizzazione integrata ambientale.

La produzione, dunque, va avanti. Se dovessero esserci altre esalazioni, si vedrà.

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