L’Italia del vino ha come primo partner commerciale gli Stati Uniti, paese che nel 2022 ha acquistato bianchi, rosati, rossi, spumanti tricolore per ben 1,86 miliardi di euro. Si tratta di una cifra molto, molto significativa, che rappresenta poco meno di un quarto di tutte le esportazioni di vino italiano nel mondo, che per lo stesso anno hanno chiuso a 7,87 miliardi di euro. Un dato, quello relativo agli Usa, in costante crescita da anni, basti pensare che dieci anni prima, nel 2013, questo era pari a poco più di un miliardo di euro. Al tempo stesso per la prima volta, nel 2023, sembra destinato a un segno meno: nonostante sia ancora saldamente al primo posto nei primi undici mesi dello scorso anno è mercato che ha segnato una flessione del 6 per cento, dato incoraggiante solo alla luce del meno 9 per cento registrato fino a settembre.

È per questo che nei confronti di nessun’altra nazione la nostra attenzione è così alta: bastano variazioni anche minime nelle abitudini di consumo degli americani per vedere contrazioni o incrementi anche significativi nei numeri di cui sopra. Proprio per tenere d’occhio questo mercato così centrale, significativo per l’Italia e più in generale per tutti i principali paesi esportatori, è particolarmente interessante leggere l’annuale report della Silicon Valley Bank sullo stato della “US Wine Industry”. Un’indagine particolarmente esaustiva sulla produzione a stelle e strisce e sull’andamento dei consumi che comprende al suo interno anche previsioni per l’anno che è appena cominciato e diverse raccomandazioni per tutto il settore.

L’andamento dei consumi

La questione dei consumi rimane centrale, con i giovani sempre più orientati a bere meno alcol, vino compreso, come ampiamente dimostrato anche da un sondaggio realizzato da Gallup, multinazionale di analisi e consulenza con sede a Washington. Due le ragioni principali: il costante aumento delle preferenze nei confronti della cannabis, oggi legale in 38 stati americani per usi medici e in 24 per usi ricreativi, e la sempre maggiore consapevolezza, in parte alimentata da un crescente movimento definito neoproibizionista e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che l’alcol sia dannoso per la salute. Il rapporto cita anche la sovrapproduzione di uva e di vino, soprattutto nella fascia più bassa del mercato, e il calo generale delle vendite di bottiglie nella categoria di prezzo inferiore a 15 dollari.

A proposito di questo neoproibizionismo Rob McMillan, autore del report, lo definisce movimento di persone «che hanno come obiettivo primario la riduzione o l’eliminazione del consumo di alcol» e sottolinea quanto si tratti di gruppo che lavora per influenzare le politiche a livello nazionale, tanto motivato quanto ben finanziato. Il mondo del vino, dice, deve insistere proprio ai più alti livelli per ricordare quanto il vino sia più di una semplice bevanda, un’istituzione culturale.

Deve ricordare al pubblico che bere una bottiglia di vino è un modo per stare bene con le persone, prodotti che nascono da un contesto produttivo che fa del lato umano uno dei suoi punti di forza: ogni bottiglia di vino, come racconta anche il sito Robb Report, è figlia delle persone che l’hanno prodotta, dalla vigna alla cantina, fino a chi l’ha venduta. Un patrimonio di umanità che non può che arricchire quello che altrimenti sarebbe solo succo d’uva fermentato.

Un processo di conoscenza che è possibile intraprendere solo attraverso sempre maggiori iniziative volte a entrare in diretto contatto con i propri clienti, senza intermediari. Visite in cantina, degustazioni anche a distanza, in breve esperienze capaci di al tempo stesso di consolidare la fiducia dei propri consumatori storici e di crearne di nuovi. Conclude sempre McMillan: «A sopravvivere non sono né la specie più forte né quella più intelligente ma quella che meglio riesce ad adattarsi al cambiamento».

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