Le grandi catture nascondono sempre qualcosa di indicibile. Portano immancabilmente sospetto, mistero. Poi ci sono anche le coincidenze che trascinano in un campo minato. Chiamiamole così, coincidenze.

Chi avrebbe mai immaginato un legame fra l’arresto di Totò Riina e quello di Matteo Messina Denaro? Chi avrebbe mai pensato di ritrovare i tali e quali melmosi intrecci a distanza di trent’anni? E, clamoroso nella semplicità che ci restituiscono i fatti, ecco che viene fuori anche lo stesso torbido personaggio.

Parliamo proprio di lui, del signor Salvatore Baiardo, improbabile gelataio, forse portavoce dei terribili fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, sicuramente “in servizio permanente effettivo” quando c’è da sapere in anteprima come scivolano in trappola i re di Cosa nostra.

Coincidenze o miracoli

Perché questo signor Baiardo, diventato famoso per avere annunciato in tv l’arresto del boss di Castelvetrano, in qualche modo era stato profeta anche dell’arresto di Salvatore Riina. Venendo a conoscenza prima di ogni altro non solo del fermo del boss di San Giuseppe Jato Balduccio Di Maggio, l’autista dello “zio Totò”, ma anche del suo pentimento.

Ufficialmente l’apparizione di Di Maggio negli atti ufficiali dei carabinieri e dei magistrati è datata 8 gennaio 1993, secondo una testimonianza resa da Giuseppe Graviano in corte di assise a Reggio Calabria il suo amico gelataio avrebbe appreso del salto del fosso di Di Maggio almeno una decina di giorni prima.

È forse la prova che Salvatore Baiardo in realtà è sì un indovino, ma un indovino di professione.
È tutto depositato nelle cancellerie delle procure distrettuali, c’è solo da capire chi muove i fili dietro il palcoscenico delle spettacolari operazioni antimafia e l’attendibilità di certe fonti.

Se dovesse risultare a verità che il signor Baiardo fosse a conoscenza del fermo e della “cantata” di Balduccio Di Maggio, dovremmo ribaltare le ricostruzioni fatte nell’ultimo quarto di secolo intorno alle circostanze della cattura di Riina, rivedere il ruolo ambiguo avuto dal generale Mario Mori nella vicenda conclusa con la mancata perquisizione del covo dove si nascondeva, riesaminare numerose pagine della sentenza scontata la divisione fra una fazione “terroristica” guidata da Riina e una “moderata” alla cui guida c’era il vecchio Bernardo Provenzano.

Se il signor Baiardo davvero sapeva prima, la storia è un’altra e non quella che ci hanno consegnato – e fra tante reticenze – negli anni successivi. E quindi a far fare la fine del sorcio al capo dei capi non sarebbe stato Provenzano, come si è sempre sostenuto, ma più probabilmente i Graviano di Brancaccio.

Le carte sono scoperte, non c’è alcun atto investigativo, è tutto alla luce del sole, parole in libertà in un’aula di giustizia di Reggio Calabria dove si celebra un’udienza del processo sulla ’ndrangheta stragista, primo imputato Giuseppe Graviano, l’uomo che i suoi chiamano “Madre Natura”.
È il 21 febbraio del 2020. Il boss di Brancaccio fa dichiarazioni spontanee, come al solito dice e non dice, allude minacciosamente a Silvio Berlusconi e poi inizia a parlare della sua latitanza. È in giro per l’Italia.

Anche in Piemonte, ad Omegna, sul lago d’Orte, nascosto in casa dell’amico Salvatore Baiardo.

Questo è il passaggio chiave della sua deposizione. Dopo le dichiarazioni spontanee risponde alle domande dell'ex pm di Palermo Antonio Ingroia, avvocato di parte civile per i familiari degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio del 1994 allo svincolo di Scilla, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Un attentato della campagna stragista contro lo stato.

Il 21 febbraio 2020 Salvatore Baiardo è un illustre sconosciuto, non è ancora una star tv, intervistato prima da Report e poi più volte da Non è l’Arena, è solo uno dei favoreggiatori dei boss di Brancaccio e, curioso dettaglio, condannato per i suoi aiuti a una pena ridicola.

Giuseppe Graviano, testuale in aula: «Eravamo io, Baiardo, mio fratello e altre persone con le rispettive mogli. La sera siamo rientrati a casa verso le 4, le donne sono andate a letto, noi maschi abbiamo fatto una partita a poker. Alle sette del mattino, Baiardo è andato a prendere i cornetti. Io abitavo con mia moglie in quella villetta, era la casa di Baiardo».

Aggiunge subito dopo: «Quando torna Baiardo dice: “Sapete, c’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio”. Siamo alla fine del 1993».
“Madre Natura” ha un lapsus, sbaglia data, dice “fine del 1993” al posto di “fine del 1992”, ma la logica del suo discorso fa capire chiaramente che siamo a prima dell’arresto di Riina, perché spiega: «Quando sono sceso in paese, Baiardo mi ha fatto vedere la villa dove abitava Di Maggio, ma io non avvisai Totò Riina, non gli dissi che Di Maggio stava collaborando e che poteva accusarlo».

Graviano comunica una notizia e un messaggio. La notizia: ho saputo da Baiardo che c’era un pentito che probabilmente stava parlando di Totò Riina. Il messaggio: non ho mosso un dito per avvertire lo "zio Totò”. Il verbale di udienza continua.

Dice ancora Graviano: «Io non so dell’arresto, io so che Baiardo rientrando dalla colazione mi riferisce che c’è un nuovo collaboratore di giustizia e che ha la villa lì, ma io sul giornale non avevo letto neanche del suo arresto..Il paese è piccolo e si conoscono tutti. Si è sparsa la voce che c’era un nuovo collaboratore di giustizia. La gente parla».

È un capolavoro la testimonianza di Graviano. O è un sofisticatissimo depistaggio tre anni prima della comparsa di Salvatore Baiardo nell’affaire Matteo Messina Denaro, oppure è un incastro formidabile che rimescola interamente le carte sulla cattura di Totò Riina. E che svela molto sul profilo del mago, del suo amico Baiardo.
Il verbale d’udienza è li, carta canta. Non ci è dato sapere se i pubblici ministeri della stragi – procura di Firenze, procura di Caltanissetta, procura di Palermo, procura di Reggio Calabria – abbiano mai indagato a fondo su quelle di parole di Giuseppe Graviano e soprattutto sul ruolo del gelataio di Omegna “in servizio permanente effettivo”.

Incontestabili sono le concomitanze, la straordinaria capacità di leggere nel futuro che ha Salvatore Baiardo ogni qualvolta che c’è un superboss sul confine ultimo.

Atti ufficiali

Vale la pena di ricordare come andarono le cose in quell’inverno tra la fine del 1992 e l’alba del 1993. Sei mesi prima l’uccisione di Falcone e di Borsellino, poi la grande caccia ai latitanti di mafia che prima non si trovavano mai.

C’è una fantomatica indagine su un traffico di stupefacenti che coinvolge «un certo Balduccio Di Maggio», parte da Palermo e arriva a Borgomanero, un paese a meno di 20 chilometri da Omegna, il paese del gelataio.

Lì, la sera dell’8 gennaio 1993 viene preso Balduccio Di Maggio. Una soffiata su un traffico di stupefacenti porta i carabinieri in un’officina, però non trovano droga ma solo Balduccio con addosso una pistola calibro 9 senza caricatore. Balduccio chiede subito un incontro «con il più alto ufficiale in grado di stanza in Piemonte».

Arriva il generale Francesco Delfino, un passato di operazioni opache durante le indagini sui sequestri di persona e sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. Il generale Delfino è stato vicecomandante della Legione Sicilia dei carabinieri e, in quel periodo, è entrato in contatto con Di Maggio.

Il generale è transitato anche nei ranghi del Sismi, il servizio segreto militare. Quando Delfino incontra Di Maggio, quest’ultimo gli rivela che può portarlo dritto al capo dei capi Totò Riina, ricercato da 25 anni.

Stendono un verbale nel comando provinciale dei carabinieri di Novara che ha questo incipit: «A richiesta dell’interessato che ha voluto riferire ai sottoscritti urgentemente notizie che gli sono venute alla mente e che ritiene che sono della massima importanza».

Sono le 2 di notte del 9 gennaio 1993, una settimana prima dell’arresto di Totò Riina, Balduccio fornisce notizie riservatissime sul più imprendibile dei boss, ma il gelataio Salvatore Baiardo, stando alla testimonianza di Graviano, lo sapeva già prima di Capodanno. Coincidenze.

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