Da quando il Covid-19 ha funestato il pianeta non passa giorno senza che qualcuno lanci un allarme: «E’ arrivato un nuovo virus che minaccia la razza umana!”. Adesso è il turno dell’influenza aviaria. Alcuni esperti e molti media tuonano minacciosi: “Il mondo si prepari, il virus dell’influenza aviaria potrebbe provocare la prossima pandemia».

Non ci dobbiamo preoccupare, o quantomeno ci dobbiamo preoccupare pochissimo. Il rischio che l’influenza aviaria - provocata da un virus che, come dice il nome, colpisce soprattutto gli uccelli – possa diffondersi all’uomo scatenando la prossima pandemia è bassissimo. Ma cosa sta accadendo?

La nuova aviaria

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Dal 2021 sulla Terra è scoppiata una gravissima epidemia di aviaria, causata da un virus del sottotipo H5N1, classificato come HPAI, che sta per Highly Pathogenic Avian Influenza, ovvero Virus dell’Influenza Aviaria ad ad Alta Patogenicità.

Il virus dell’influenza aviaria è un virus dell’influenza di tipo A, una famiglia alla quale appartengono svariati virus che provocano l’influenza anche in noi esseri umani, il cui genoma è costituito da Rna.

Il virus del ceppo H5N1 attualmente circolante è comparso per la prima volta nel 1996 in una fattoria di oche del Guangdong, in Cina.

Fino ad ora, questo virus è ha infettato almeno 63 specie di uccelli diversi, e si è dimostrato capace di infettare svariate specie di mammiferi, tra cui foche, orsi, volpi.

Il virus dell’aviaria, ovviamente, si trasmette da un volatile all’altro. A partire dal 2021, l’influenza aviaria ha sterminato intere colonie di uccelli selvatici in varie aree sparse su tutto il pianeta, e da questi si è diffusa anche ai volatili in cattività: in Nord America e in Europa, il virus ha infettato milioni di polli, di tacchini e altri uccelli cresciuti negli allevamenti intensivi, ed è stato necessario abbatterli per evitare che il contagio si propagasse.

In Italia, nelle ultime settimane l’aviaria ha colpito le aree bresciane del lago di Garda, dove ha ucciso almeno seicento gabbiani, le cui carcasse sono stare recuperate sulle rive tra Desenzano e Sirmione. Da ottobre scorso ad oggi, il virus dell'aviaria ha interessato 28 paesi europei.

Il 13 marzo, l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) dell’Unione europea, ha pubblicato un rapporto sull’andamento dell’epidemia in cui si legge: «Il virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità in Europa ha causato un aumento di casi tra gli uccelli selvatici, particolarmente gabbiani. Il rischio di infezione tra il pollame potrebbe aumentare nei prossimi mesi a mano mano che i gabbiani si spostano dal mare verso le zone interne, raggiungendo aree di produzione di pollame».

Non solo uccelli

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Il virus dell’aviaria attuale si può trasmettere dagli uccelli anche ad altre specie animali? Pare proprio di sì. In tutto il mondo l’aviaria ha provocato sporadiche ma continue infezioni che hanno colpito animali selvatici come volpi, orsi e procioni.

 L’aviaria, poi, ha provocato tre grandi focolai epidemici tra i mammiferi. Un primo focolaio è scoppiato nella popolazione delle foche del Maine, negli Usa, che probabilmente avevano mangiato gabbiani malati; un secondo è scoppiato tra i leoni marini del Perù, con almeno 3.487 esemplari uccisi dal morbo, che avevano divorato pellicani infetti.

Nell’ottobre dello scorso anno, un terzo focolaio è scoppiato in un allevamento di visoni di Carral, in Spagna, e ha portato alla morte di almeno 2200 esemplari di questi mustelidi da pelliccia. I responsabili dell’allevamento sono stati costretti ad abbattere tutti i 51.986 visoni della fattoria.

Gli scienziati hanno isolato il virus dai visoni e ne hanno sequenziato l’Rna, e così hanno scoperto che si trattava di un virus del sottotipo H5N1 appartenente al clade 2.3.4.4b – quello responsabile delle infezioni tra i gabbiani europei- ma al quale s’erano aggiunte alcune mutazioni.

Un brivido è corso lungo la schiena dei ricercatori: queste mutazioni forse aveva conferito al virus la capacità di trasmettersi da mammifero a mammifero, cioè da un visone all’altro, o peggio ancora da un mammifero all’uomo?

Undici addetti degli allevamenti erano venuti a contatto con visoni infetti, ma tutti sono risultati negativi al test per l’H5N1. 

Quindi, è probabile che questo ceppo del virus dell’aviaria si possa trasmettere da mammifero a mammifero, visto che ogni visone ne aveva contagiato altri, ma fortunatamente non dal mammifero all’uomo, o peggio ancora da uomo a uomo.

Tuttavia, «questa variante costituisce un territorio inesplorato dell’influenza aviaria», ha precisato Wendy Puryear, virologa della Tufts University di Medford.

«In assenza di determinate precauzioni specifiche, la malattia potrebbe anche compiere il salto interspecie e diffondersi nell’uomo». Potrebbe, ma questa possibilità appare remota.

I  rischi per gli esseri umani

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Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dal 2003 ad oggi il virus dell’influenza aviaria ha infettato solo 873 esseri umani in 21 paesi del mondo, dei quali 458 sono deceduti, con un tasso di letalità elevatissimo, superiore al 50 per cento.

Nella maggior parte dei casi si trattava di individui che si erano infettati maneggiando pollame o altri volatili infetti, mentre non sono mai stati segnalati casi di trasmissione da uomo a uomo.

Da quando l’epidemia di aviaria è riesplosa, due anni fa, i casi tra gli esseri umani sono stati solo dieci, e i decessi ancor più rari.

Due individui positivi al virus sono stati segnalati in Spagna, due in Cambogia, due in Cina, uno in Ecuador e uno Vietnam. Due le persone decedute: una donna di 38 anni in Cina e una bambina di 11 in Cambogia.

In un primo momento il caso della bambina cambogiana aveva destato molte preoccupazioni. La bimba viveva nella provincia di Prey Veng, dove non si segnalavano casi da almeno nove anni; si è ammalata, è risultata positiva al virus H5N1, e dopo soli sei giorni è morta, il 22 febbraio di quest’anno.

Anche il padre è risultato infetto, ma in modo asintomatico: era stato contagiato da sua figlia, e perciò il virus aveva acquisito la capacità di trasmettersi da uomo a uomo?

I ricercatori hanno isolato il virus dalla bambina e da suo padre, lo hanno sequenziato e hanno scoperto che si trattava di una variante del clade 2.3.2.1, quella che circola nel pollame del Sud-Est asiatico e che in passato è stata responsabile di altri casi sporadici nell’uomo.

Anche in questo caso, quindi, pare più probabile che padre e figlia siano stati infettati dal virus dell’aviaria entrando in contatto con uccelli infetti, vivi o morti, mentre è assai improbabile - per non dire impossibile - che il contagio sia avvenuto da uomo a uomo. 

Il 10 febbraio, il direttore generale dell’Oms Tedros Ghebreyesus ha affermato: «Nelle ultime settimane ci sono state diverse segnalazioni di mammiferi tra cui visoni, lontre, volpi e leoni marini che sono stati infettati dall'influenza aviaria H5N1.  Il virus ha circolato ampiamente negli uccelli selvatici e nel pollame per 25 anni, ma la recente diffusione ai mammiferi deve essere monitorata attentamente. Per il momento, l'Oms valuta il rischio per l'uomo come basso, ma dobbiamo prepararci».

E in una sua nota l’Oms ha aggiunto: «Tutte le volte che i virus dell’influenza aviaria circolano nel pollame c’è il rischio di infezione sporadica o di piccoli cluster di casi umani a causa dell’esposizione con pollame infetto o ad ambienti contaminati. Le prove epidemiologiche e virologiche disponibili suggeriscono che gli attuali virus dell’influenza aviaria H5 non abbiano acquisito una capacità di trasmissione sostenuta tra gli esseri umani, quindi la probabilità di una diffusione da uomo a uomo è bassa. Sulla base delle informazioni finora disponibili, valutiamo come basso il rischio per la popolazione generale rappresentato da questo virus».

Com’è fatto il virus

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Quindi, contrariamente a quello che dicono certi esperti e certi giornali, possiamo dormire sonni tranquilli: finora il virus della aviaria non si è mai trasmesso da uomo a uomo ed è molto difficile che questo accada in futuro. Perché? Dipende dalle caratteristiche molecolari del virus.

I virus dell’influenza sono costituiti da un nucleo centrale che contiene l’Rna, cioè il genoma, circondato da un involucro formato da proteine.

Le due proteine principali dell’involucro sono l’emagglutinina – in inglese Hemagglutinin, abbreviato H, una proteina che fa agglutinare i globuli rossi del sangue; e la neuraminidasi, abbreviato N - un enzima che scinde certi legami chimici della molecola dell’acido sialico, un glucide presente sulla membrana delle cellule dell’ospite.

Entrambe queste proteine sono essenziali per la patogenicità del virus. Il virus utilizza l’emagglutinina per legarsi alle cellule dell’ospite e poi infettarle, e la neuraminidasi per rilasciare all’esterno della cellula infettata le nuove copie del virus generate.

Si distinguono svariati sottotipi di virus dell’influenza aviaria, identificati in base alla combinazione delle due proteine principali presenti sulla superficie del virus, l’emoagglutinina, H, e la neuraminidasi, N, ciascuna delle quali esiste in diverse forme, classificate con un numero: per cui si riconoscono i sottotipi H5N1, H5N2, H7N2, e così via, anche se tutte le maggiori pandemie sono state causate da virus dei sottotipi H5 e H7.

I virus dell’influenza aviaria si legano con maggiore affinità alle molecole di acido sìalico unite ad uno zucchero denominato galattosio attraverso un legame chimico denominato alfa (2,3).

Queste molecole di acido sialico legate al galattosio con un legame alfa (2,3) sono presenti sulla membrana esterna delle cellule epiteliali che rivestono l’esofago, lo stomaco e l’intestino delle oche, dei polli, dei gabbiani e della maggior parte dei volatili.

Invece, i virus dell’influenza umana si legano con maggiore affinità alle molecole di acido sìalico legate al galattosio attraverso un legame chimico alfa (2,6) che sono presenti sulla membrana esterna delle cellule ciliate che rivestono le nostre vie aeree, dal naso ai polmoni.

Qualche molecola di acido sialico del tipo alfa (2,3) si trova anche sulla membrana esterna di rare cellule epiteliali ciliate delle nostre vie aeree inferiori.

Questa capacità di legarsi a specifici recettori ha profonde implicazioni cliniche. Per esempio, i virus dell’influenza aviaria H5N1 infettano con grande difficoltà le cellule delle vie respiratorie dell’uomo, poiché pochissime sono le cellule che contengono le molecole di acido sialico con legami alfa (2,3) riconosciute da quei virus.

Per questo, nell’uomo il virus dell’influenza aviaria solo in casi rarissimi produce un’infezione clinicamente rilevante.

Per potersi diffondere da un essere umano all’altro, poi, il virus dell’influenza dovrebbe legarsi con alta affinità alle molecole di acido sialico con legami alfa (2,6) presenti nelle cellule delle nostre vie respiratorie, cosa che il virus dell’aviaria non riesce a fare.

Invece, i virus influenzali umani che hanno provocato le grandi pandemie - come quella della spagnola del 1918 o quella più recente del 1968 - avevano una straordinaria capacità di legarsi alle molecole di acido sialico con legami alfa (2,6) delle cellule umane.  

Le cellule epiteliali che rivestono la trachea del maiale, degli orsi e di altri mammiferi possiedono una membrana che contiene molecole di acido sialico sia con legami alfa (2,3) sia con legami alfa (2,6), e perciò questi mammiferi possono essere infettati dal virus dell’influenza aviaria.

L’incognita mutazioni

Il virus dell’aviaria potrebbe mutare acquistando la capacità di infettare le cellule umane? E’ molto improbabile, perché già così è perfetto per infettare le cellule dei volatili, che costituiscono un suo enorme bacino di diffusione.

E se anche comparisse un virus dell’aviaria capace di infettare le cellule umane, risulterebbe svantaggiato dal punto di vista evolutivo rispetto ai virus capace di replicarsi nei volatili.

Un’altra possibilità, ancora più remota, è che in un ospite favorevole - come un mammifero -  all’interno di una cellula infettata contemporaneamente da virus dell’influenza aviaria e dell’influenza umana, questi si scambiassero materiale genetico dando origine per ricombinazione a un nuovo virus dell’aviaria capace di infettare l’uomo.

Un evento che può accadere da un punto di vista probabilistico ma che oserei definire più unico che raro. Quindi, le probabilità che il virus dell’influenza aviaria acquisisca la capacità di infettare l’uomo non sono zero, ma quasi.

E se anche comparisse un virus dell’aviaria in grado di infettare l’uomo, non dobbiamo preoccuparci troppo. Per prima cosa, questo virus sarebbe in qualche modo affine al virus dell’influenza umana, e quindi il nostro sistema immunitario sarebbe già in grado di riconoscerlo almeno in parte e di combatterlo, diversamente da quello che è accaduto con il virus del Covid, che era totalmente nuovo e a noi sconosciuto.

Infine, ci sono già decine di vaccini contro il virus dell’aviaria pronti nei laboratori degli scienziati che aspettano solo di essere prodotti su scala industriale.

Per esempio, i Centers for Disease Control americani hanno affermato: «Abbiamo scorte di vaccino pronte per essere usate nel caso che l’influenza aviaria cominci a diffondersi da persona a persona».

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