Gli astronauti della Stazione spaziale internazionale (Iss) erano ancora immersi nel sonno quando, il 15 novembre scorso, hanno ricevuto una chiamata d’emergenza dal centro controllo della Nasa di Houston.

Poche ore prima, la Russia aveva condotto un test missilistico distruggendo un suo vecchio satellite di epoca sovietica. L’impatto aveva creato almeno 1.500 grossi frammenti, formando una nube di detriti orbitante attorno alla Terra alla velocità di 28mila chilometri orari.

Una nube che si stava pericolosamente dirigendo nelle vicinanze della Iss.

I sette astronauti sulla stazione spaziale (quattro statunitensi, due russi e un tedesco) si sono dovuti rifugiare in due delle navicelle attraccate alla Iss e prepararsi a una possibile fuga in direzione Terra.

Dopo due ore di attesa hanno invece ricevuto la conferma di scampato pericolo: potevano tornare alle loro postazioni. La nube di detriti era passata sopra le loro teste e avrebbe continuato a farlo anche nei successivi passaggi.

La normalità

Non è la prima volta che l’equipaggio della Iss deve rifugiarsi sulle navicelle all’attraversamento di una nube di detriti e incrociare le dita; così come non è la prima volta che una collisione crea da un momento all’altro migliaia di frammenti spaziali destinati a vagare nello spazio per il tempo a venire.

Uno degli eventi più gravi si è verificato l’11 gennaio del 2007, quando l’esercito cinese ha distrutto, sempre durante un test missilistico, il suo satellite meteorologico Fengyun-1C, creando da un momento all’altro oltre tremila frammenti.

Solo due anni più tardi, il 10 febbraio 2009, altre migliaia di detriti sono stati dispersi nello spazio a causa di una collisione involontaria tra un satellite per le comunicazioni della Motorola e il Cosmos 2251, un satellite russo inattivo.

Nel complesso, lo Space Surveillance Network del ministero della Difesa statunitense monitora oltre 27mila detriti spaziali dalle dimensioni di almeno dieci centimetri: frammenti provocati da collisioni, razzi usati e oltre 3/4mila satelliti inattivi (su 8mila totali presenti nello spazio), che vagano abbandonati in orbita mettendo costantemente in pericolo non solo la Stazione spaziale internazionale, ma ogni missione con a bordo personale umano.

A peggiorare la situazione c’è il fatto che non tutti i detriti sono abbastanza grandi da essere tracciabili. Secondo le stime, nell’orbita bassa terrestre (l’area compresa tra 300 e 1000 chilometri sopra la superficie del nostro pianeta) sono presenti oltre 200mila frammenti di dimensioni tra 1 e 10 centimetri, mentre quelli ancora più piccoli potrebbero essere milioni e milioni.

Bastano pochi millimetri

Alla velocità con cui questi detriti viaggiano, è sufficiente un oggetto grande quanto una moneta per fare seri danni: nel 2016, l’astronauta della Iss Tim Peaker aveva mostrato su Twitter come un oggetto dalle dimensioni stimate in due millimetri circa era riuscito a scheggiare i quattro pannelli (ciascuno spesso tre centimetri) che compongono la cupola della Iss, lasciando uno sfregio del diametro di sette millimetri.

Non c’è bisogno di essere colpiti da un detrito di grandi dimensioni, insomma, per mettere in pericolo l’integrità degli astronauti: secondo le analisi dell’Agenzia spaziale europea, qualunque oggetto superiore a un centimetro può penetrare gli scudi della stazione spaziale, mentre un detrito anche solo di 10 centimetri può mandare in frantumi un satellite o una navicella.

È per questo che, quando viene avvertito per tempo, l’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale esegue delle manovre di evasione: dal 1999 a oggi, ne sono state condotte 29, di cui tre soltanto nel 2020.

Queste manovre, durante le quali l’orbita della Iss viene modificata, sono condotte ogni volte che il rischio di collisione supera il valore di uno su centomila.

Ma le probabilità che la stazione spaziale o una navicella vengano colpite sono spesso molto più elevate. La valutazione di pericolo effettuata dai centri di controllo missione raggiunge facilmente 1/180.

L’invasione si intensifica

La soglia oltre la quale non si possono effettuare missioni spaziali è invece di 1/60: un valore che – secondo lo specialista in sicurezza spaziale David Wright – rischia di essere raggiunto nel giro di qualche decennio, visto che a causa delle collisioni i detriti continueranno ad aumentare anche se, per assurdo, non venisse più lanciato neanche un singolo satellite.

Cosa succederà allora nei prossimi anni, considerando l’invasione di minisatelliti per le comunicazioni attualmente in corso? Nel 2017, un razzo indiano ne ha rilasciati 104 in una volta sola, mentre la società Starlink di Elon Musk ha già 1.700 minisatelliti che si aggirano per l’orbita bassa e ha chiesto il via libera per altri 30mila di questi dispositivi (che forniscono accesso a internet dallo spazio).

A Starlink si aggiungono realtà come Boeing, Amazon e altre, che hanno richiesto l’approvazione per inviare un totale di 35mila satelliti nei prossimi anni.

Sebbene, col tempo, questi detriti vengano eliminati dal campo gravitazionale terrestre – che li attira a sé finché non raggiungono l’atmosfera, dove la maggior parte di essi brucia e si disintegra – il processo perché ciò avvenga è estremamente lungo: «Il campo gravitazionale terrestre», si legge sul sito dell’Istituto nazionale di astrofisica, «attira gran parte della spazzatura spaziale in orbite sempre più basse, fino a che non raggiunge l’atmosfera. La maggior parte brucia al rientro nell’atmosfera. Tanto maggiore è l’altezza a cui orbita il detrito, tanto più rimarrà in orbita. La spazzatura spaziale che si trova in orbita più bassa di 600 chilometri normalmente cade sulla Terra entro pochi anni, mentre se si trova oltre i 1.000 chilometri di altezza può restare in orbita oltre un secolo».

Una profezia

Il numero crescente di frammenti e l’avvento di migliaia di nuovi minisatelliti fa temere che possa un domani verificarsi la profezia dello scienziato Donald Kessler, che già negli anni ’70 immaginò uno scenario in cui la densità eccessiva di frammenti avrebbe dato vita a una reazione a catena di collisioni spaziali, rendendo infine inutilizzabile l’orbita bassa terrestre. Stiamo finendo lo spazio nello spazio?

Per quanto possa sembrare assurdo – e limitandoci ovviamente all’orbita bassa – la questione è talmente concreta che da qualche anno sono partiti i primi progetti per creare dei veri e propri spazzini spaziali.

La Space Force statunitense ha per esempio erogato a decine di imprese un finanziamento iniziale di 250mila dollari l’una per la presentazione di tecnologie in grado di rimuovere i detriti o riparare alcuni rottami spaziali, in modo che possano essere diretti verso l’atmosfera.

I progetti più convincenti riceveranno ulteriori finanziamenti da 1,5 milioni di dollari per lo sviluppo di strumenti che verranno poi dispiegati in orbita entro il 2024.

Nella missione del futuro per ripulire lo spazio è presente anche il nostro paese. Il ramo britannico dell’italiana D Orbit, società aerospaziale con base a Como, ha vinto un contratto da 2,2 milioni di euro con l’Agenzia spaziale europea per sviluppare una tecnologia per la rimozione di detriti spaziali.

Aspirapolvere spaziale

Il contratto prevede che venga sviluppato un “Deorbit Kit”: un insieme di dispositivi che può essere adattato a veicoli spaziali di qualunque tipo per consentire loro di eseguire le manovre necessarie a uscire dall’orbita e rientrare in atmosfera.

Stando alle dichiarazioni ufficiali di D Orbit, questi sistemi potranno essere sfruttati in futuro anche per la «rimozione attiva dei detriti», per esempio installandoli sui satelliti abbandonati già in orbita.

Tra le altre realtà che stanno entrando in questo settore c’è la giapponese Astroscale, che nell’agosto scorso ha completato una missione dimostrativa di rimozione detriti tramite un satellite in grado di catturare i rifiuti spaziali utilizzando un meccanismo magnetico.

È ancora presto per capire quali tecnologie si dimostreranno più efficaci nel rimuovere i detriti e i satelliti abbandonati, ma una cosa è certa: è giunto il momento di ripulire anche lo spazio.

© Riproduzione riservata