Prima di iniziare il ragionamento tocca denunciare un possibile conflitto di interessi: chi scrive quanto state per leggere non è solo uno spettatore, ma anche un telecronista per il canale Eurosport, di proprietà Discovery. Ecco. Ora che ho confessato i peccati, partirei dal fondo: il fatto notorio e lampante è che Dazn – una società che in Italia si è accesa appena nel 2018, è una sorta di Netflix dello sport ed è di proprietà di Len Blavatnik, uno degli uomini più ricchi al mondo – ha vinto la corsa ad accaparrarsi i diritti televisivi più ambìti e costosi nello sport nazionale, quelli del campionato di calcio, appartenuti per quasi vent’anni alla pay-tv di Sky.

La portata del fenomeno è divenuta evidente a tutti, più o meno come lo fu quando il pallone traslocò da sport nazionale trasmesso, seppur a spizzichi e bocconi, dalla televisione pubblica in chiaro a prodotto oneroso, cui veniva dedicato un canale per ciascuna partita e per il quale veniva chiesto al telespettatore di attrezzarsi con strumenti allora largamente ignoti come l’antenna parabolica, l’illuminatore, il decoder e la smart card.

Il paradigma sta per stravolgersi ancora una volta: il nuovo mondo è immateriale. Con un nome utente e una password si può guardare lo sport sì, in tivù, ma anche sul computer, sul telefono, sul tablet, su tutto ciò che abbia uno schermo e sia connesso. I tempi e i riti della televisione sportiva, pure quelli, promettono di trasmutare: l’amministratore delegato di Dazn ha fatto sapere che «il nostro studio è lo stadio», e pare un de profundis al lungo racconto del prima e del dopo partita.

Come Amazon

In verità, la rivoluzione era iniziata da un po’ ma, come uno tsunami, è originata da lontano, senza che il pubblico si accorgesse di alcunché, perché suoi germi sono cresciuti in penombra. Molti di noi hanno abbracciato, in tempi relativamente brevi, il cambiamento di schema imposto da Amazon a certe abitudini inveterate: la creatura di Jeff Bezos ha sconvolto il mondo del commercio al dettaglio, introducendo un nuovo modo di fare la spesa (e di far lievitare i margini evitando di pagare le tasse, se è lecita la postilla). E quando ha messo a disposizione dei suoi clienti, abbonati al servizio di consegne gratis, un contenitore digitale come Prime Video, apparentemente del tutto slegato dal suo business, in Italia era il 2016 e lo hanno notato in pochi. È capitato altrettanto quando, in quegli stessi mesi, è sbucata una notizia curiosa: Amazon, quell’Amazon lì, il posto digitale in cui si compra il frullatore che costa meno rispetto al negozio sotto casa che paga l’affitto dei locali non digitali, lo stipendio al commesso non digitale e non riesce a farti lo stesso prezzo, era interessata ai diritti di trasmissione degli sport americani, come la National Football League. Difatti, se li è presi. Poi ha puntato sul tennis in Gran Bretagna, e si è aggiudicata il Tour Atp. Poi ha messo gli occhi sul Roland Garros, e ha vinto l’asta per trasmettere il torneo in Francia, dopo 27 anni di dirette su Eurosport. Il tutto, senza possedere una televisione e trasmettendo solo in streaming.

Storia dello sport televisivo

In tante delle nostre case, rassicurante come il plaid a quadrettoni, c’era una volta, e spesso c’è ancora, il telecomando. Il divano, la tivù in salotto. Generazioni si sono susseguite e sono cresciute sapendo di trovare, sul primo, la partita di pallone. Sul secondo, il gran premio. “Sul tre”, quello coi palinsesti magari un po’ più laschi, quegli sport a durata indefinita che sballavano gli orari canonici dei notiziari: il ciclismo, il tennis. La rottura del monopolio pubblico per mano delle reti di Berlusconi, che peraltro introdusse il basket Nba commentato da Dan Peterson, il wrestling, il tennis con le telecronache di Rino Tommasi e Gianni Clerici e, insomma, aprì allo sport un po’ meno nazionalpopolare, non aveva costretto a mutare le care vecchie abitudini: quei canali erano gratuiti e terrestri, a disposizione sui tasti dal quattro in avanti. Ci sono voluti anni, perché una parte delle famiglie accettasse, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, un concetto indigesto e controintuitivo, per lo spettatore italiano, come la televisione a pagamento. In molti rifiutavano dogmaticamente l’idea di versare denaro per un “secondo canone”. Ma, tutto sommato, l’innesto è riuscito: negli anni, le parabole sono fiorite sui tetti d’Italia come margheritine. Gli utenti hanno imparato a distinguere la qualità di un segnale analogico da quello digitale, poi hanno familiarizzato con l’alta definizione: oggi, un qualunque evento sportivo non in Hd pare una roba antidiluviana, uno Spartak Mosca–Dnipropetrovsk del 1984 con il campo innevato e la nebbia bassa. Dopodiché, abbiamo preso confidenza con la registrazione dei programmi e con la modalità on demand, la prima versione del telespettatore-regista, che decide cosa guardare, come e quando, mette la pausa e riprende a suo piacimento.

Archeologia tecnologica

Che la rete, intanto, avesse iniziato a lavorare sottotraccia e a scompaginare il modo di seguire lo sport, si è iniziato a comprendere più tardi rispetto ad altri media, come i giornali: l’impianto industriale tradizionale del quotidiano stampato su carta e venduto in edicola ha iniziato a traballare con l’arrivo del vuvuvu punto it (e il miraggio dell’informazione gratuita, al più pagata coi clic) vent’anni fa.

Le conseguenze sono note: crollo della stampa generalista e specializzata, abbattimento degli investimenti pubblicitari, estinzione progressiva delle rivendite di giornali. Non è questo il luogo per dibattere della reazione di molte aziende editoriali ai rivolgimenti del web, ma la sostanza,a mio parere, è che la risposta comune sia stata una corsa suicida al risparmio e al taglio di costi, con una logica da gestore poco lungimirante di un locale in crisi di fatturato.

Il modello televisivo, per conto suo, ha retto più a lungo, anche per una tra le più banali delle considerazioni: le connessioni, nel nostro paese, fanno pena. E se bastano per leggersi un sito, fino a non troppo tempo fa non sono state sufficienti per reggere le trasmissioni in streaming che necessitano di un flusso di dati infinitamente più ponderoso, mentre qui continuano a sussistere vaste zone di archeologia tecnologica.

La banda larga avrebbe dovuto far viaggiare veloce in rete tutti i cittadini ma il suo completamento viene spostato sempre più avanti: il 2016, anzi no il 2020, anzi no il 2024 (Colao ha promesso, in questi giorni, il fine lavori nel 2026). E nonostante continui a mancare a una buona fetta delle abitazioni, con il telefonino usato a mo’ di hotspot distributore di connessione veloce, ormai sono in tanti ad avere preso confidenza con il mondo digitale.

Nuovi consumatori

Nel 2006, il Time pubblicò una delle copertine più profetiche degli ultimi decenni: campeggiava un computer da tavolo e la scritta «You», tu. «Sì, proprio tu», proseguiva il titolo. «Benvenuto nel tuo mondo: l’era dell’informazione la controllerai tu». Forse non lo sapevano fino in fondo, ma avevano perfettamente centrato il bersaglio: i nuovi consumatori, i ragazzi, non sono fatti per trascorrere ore davanti a uno schermo appoggiato su un mobiletto. Non riescono neanche a tenere desta l’attenzione per i 90 minuti di una partita di calcio, figurarsi per gli sport che durano ore. Non accettano che il palinsesto venga imposto, pretendono di farselo da sé. Difatti, fanno scorpacciate di highlight, i riassuntini video degli eventi sportivi che condensano il meglio di un match (e che distorcono pure il senso di uno sport, perché una partita di calcio non è fatta solo di gol come il tennis di soli colpi vincenti, ma tant’è).

Esigono che le emozioni siano ristrette e condensate, sempre accessibili e condivisibili con un clic, da consumare e bruciare alla bisogna.

Per loro, non c’è alcun problema nel destreggiarsi tra maniere diverse di scovare i contenuti che interessano: lo fanno già usando tre o quattro social. E giacché il futuro alloggia da quelle parti, nell’Ott, che significa over the top e si può tradurre con l’offerta di contenuti tramite la rete, anche i media tradizionali stanno mutando pelle: Sky ha la sua piattaforma Now Tv, Mediaset conta su Infinity, Discovery ha da poco lanciato Discovery+ e quest’estate la sfrutterà, per esempio, per trasmettere 2.500 ore di Olimpiadi. Anche la Rai ha lavorato a lungo sul suo Ott, RaiPlay. In Italia, Amazon inizierà a trasmettere alcune partite di Champions League e chissà che non inizi a partecipare ad altre aste di assegnazione di diritti sportivi. Per tenere attaccati (e abbonati) i giovani, sanno che serve offrire contenuti agili, accattivanti, come ha fatto negli Stati Uniti la Nba con la sua app. Lo slow sport, le maratone televisive non sono più vendibili ai giovani.

Tanto che c’è chi propone di forzare le regole di alcuni giochi: il tennis dura troppo? Introduciamo quello a tempo, come ha fatto Patrick Mouratoglou, il coach di Serena Williams, che ha organizzato esibizioni basate su un sacrilegio come la conta dei minuti e non dei punti. Altri stanno ipotizzando incroci tremebondi tra lo sport vero e gli e-sport, i videogame che simulano gare sportive: ci si creda o no hanno un pubblico, particolarmente diffuso su YouTube (altro nome profetico: la televisione che ti fai tu).

E il Coni sta valutando di inserirli tra le discipline sportive ufficiali. Se, nel mondo che fu, bastavano tre tasti, per rimanere al passo dello sport contemporaneo potrebbero non bastare quattro o cinque abbonamenti. Se poi ci sarà ancora necessità di qualcuno che lo racconti, lo sport, sarà meglio chiederlo al Time.  

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