«Devono fare il presente altrimenti dimostreranno che l’omertà non gli è estranea», dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli. Il “presente” di cui parla è l’obbligo morale che gli agenti picchiatori, non ancora identificati, hanno nei confronti delle vittime e del paese: quello di presentarsi all’autorità giudiziaria e confessare la partecipazione alla mattanza.

Sono decine gli agenti, muniti di casco e non riconoscibili, che hanno partecipato al pestaggio del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti che hanno portato all’emissione di 52 misure cautelari, alla sospensione di 77 agenti in una indagine che coinvolge 117 persone. Identificare gli altri protagonisti del pestaggio di stato è una delle richieste che arriva dai detenuti e dai loro familiari. Ioia, un passato da narcotrafficante, pagato il suo conto con la giustizia, è diventato prima attivista e poi garante dei detenuti.

Poggioreale 30 anni fa

Per i familiari dei reclusi non è solo un riferimento, ma uno di loro. Uno che ha vissuto sulla propria pelle pestaggi simili a quelli ripresi dalle telecamere del carcere Francesco Uccella. Nudo e massacrato. «Io non sono riuscito a vederli interamente i video, ho provato brividi, non ho avuto il coraggio di arrivare alla fine. Ma quella scena dei detenuti che passavano sotto i cordoni mi ha impressionato. Ci sono passato anche io. Erano gli anni Ottanta, oltre trent’anni fa, amaramente dico, sembra non sia cambiato niente». Erano gli anni della cella zero, di un carcere, quello napoletano di Poggioreale, dove agivano le squadrette e dove lo stato non controllava niente, nell’istituto di pena entrava di tutto: droga e armi. Nelle chat agli atti dell’inchiesta, gli indagati per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere evocano proprio l’istituto partenopeo. Pasquale Colucci, dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, oggi ai domiciliari, definisce la violenza camuffata da perquisizione straordinaria con un nome: «Il sistema Poggioreale».

«Quando ti portavano in cella zero, ti aspettavano in quattro, cinque agenti e ti piegavano a forza di colpi. Quando nell’aprile dell’anno scorso il telefono ha cominciato a squillare, ho capito piano piano che era successo di nuovo e in maniera indecente». Ioia e il garante regionale, Samuele Ciambriello, sono diventati destinatari di telefonate, audio e messaggi da parte dei familiari che raccontano quanto accaduto il 6 aprile.

Così Ciambriello ha inviato, la sera dell’8 aprile, l’esposto alla procura dal quale è partita l’indagine. Tra le vittime denuncianti c’è anche un detenuto che lo scorso settembre aveva raccontato a Domani le violenze subite, ma soprattutto che aveva visto i video del massacro durante la sua testimonianza in procura.

La paura delle vittime

«Ho rivisto i video, ho provato di nuovo terrore. Ho rivissuto le violenze, la paura. In mezzo alle scale c’ero io che venivo massacrato, arrivavo dal passeggio, mi avevano già picchiato in ogni modo. Ad oggi non ho ancora capito come sono riuscito a salire, io non ce la facevo neanche a camminare. Non ho mai preso così tante botte in vita mia», dice.

A settembre ci aveva raccontato l’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri Daniela Pannone e Alessandra Pinto, la prima visione dei video, utile al riconoscimento degli agenti picchiatori. Ora l’inchiesta, coordinata dal procuratore Maria Antonietta Troncone e dall’aggiunto Alessandro Milita, ha riportato alla luce quelle immagini, sequestrate dai carabinieri e salvate ai tentativi di depistaggio.

«Aspettiamo il processo per costituirci parte civile, chiederemo i danni allo stato per quello che abbiamo trascorso. La cosa che però io cerco, oltre alla giustizia, è un lavoro perché non voglio sbagliare più», conclude. Non tutti i detenuti vittime hanno denunciato, ma dopo la pubblicazione dei video da parte di Domani, ci hanno scritto perché hanno riconosciuto figli, mariti, padri, cari.

«Io ho rivisto mio fratello, era nell’area socialità, dove solitamente vanno per scambiare una chiacchiera, giocare a biliardino, invece l’hanno devastato di botte, ma non ha denunciato», ci racconta il congiunto di un detenuto che deve finire di scontare la sua pena in carcere. È ancora lì al reparto Nilo, luogo del pestaggio.

«A me non sembra una cosa normale, dopo articoli, dopo denunce, che mio fratello sia rimasto nello stesso reparto con i suoi aguzzini per mesi. Come avrebbe potuto denunciare? Ha avuto paura di ritorsioni. Non voleva neanche parlarne, raccontava solo di un recluso sfasciato di botte. Io provo rabbia e schifo, siamo una famiglia di lavoratori, mio fratello sta pagando la sua pena, ma non siamo abituati al carcere. Questa storia ci ha segnati. Ci costituiremo parte civile, ma vogliamo giustizia e che chi ha sbagliato lasci la divisa. Non sono agenti, hanno fatto cose bestiali», conclude. I familiari temono che sulla vicenda possa cadere il silenzio.

Un altro detenuto, presente quel 6 aprile, ricorda la storia di Lamine Hakimi, il giovane algerino, picchiato e portato, senza ragioni, in isolamento, lasciato senza farmaci, morto dopo aver assunto un mix di oppiacei. «Ho visto le manganellate che gli hanno dato, ero lì. Era un ragazzo malato (affetto da schizofrenia, ndr), non doveva stare in carcere nelle sue condizioni. Invece, come noi, ha vissuto l’inferno prima di morire. Ho ancora gli incubi, ma non ho denunciato», ci racconta un altro ex detenuto. Altri, invece, hanno deciso di raccontare tutto. Sono 77 i reclusi che sono stati ascoltati dalla procura contribuendo alla ricostruzione dei fatti e al riconoscimento degli agenti, anche se molti poliziotti penitenziari restano ancora impuniti e senza volto.

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