A Napoli una strada divide l’ospedale San Giovanni Bosco dal rione Amicizia, case popolari assegnate dal clan dove comanda l’Alleanza di Secondigliano. L’alleanza è in origine una struttura criminale femmina, nata dal matrimonio di tre sorelle. Si chiamano Anna, Maria e Rita. Si sposano tre boss di rango, tre “omm” per dirla con le parole degli affiliati. “Omm” significa uomo ed essere omm significa rispetto e devozione. Le tre sorelle sono sposate con Francesco Mallardo, detto Ciccio ’e Carlantonio; con Edoardo Contini, detto ’o Romano; con Patrizio Bosti, braccio destro di Contini.

I clan compongono l’Alleanza di Secondigliano e sono alleati con i Licciardi: oggi, secondo le forze dell’ordine, tra le figure di spicco c’è Maria, detta ’a Piccerella, la piccolina, sorella del capo storico, da tempo defunto, Gennaro detto ’a Scigna, la scimmia.

Hanno soldi, troppi, uomini e mezzi che hanno consentito un comando militare, un controllo capillare di ogni attività illecita e il riciclaggio di milioni di euro. Anche l’ospedale San Giovanni Bosco è feudo dell’Alleanza, e in particolare dei Contini. Avere la disponibilità di accesso a un ospedale è fondamentale per una famiglia criminale perché consente di disporre in ogni momento dell’assistenza necessaria a gregari e capi.

L’ultima a farsi visitare sarebbe stata proprio la boss Maria Licciardi, pochi giorni prima di finire coinvolta in una maxi retata, anche se quando è scattata l’operazione di polizia si è resa irreperibile, latitante. È tornata, da donna libera, quando ormai la misura cautelare ai suoi danni era stata annullata dal Tribunale del riesame che ha “rivisto” il suo ruolo di vertice. Storie già viste. Nel 2001 fu arrestata dopo due anni di latitanza: era inserita tra i trenta ricercati più pericolosi, già in passato condannata per la sua partecipazione al gruppo criminale dell’Alleanza di Secondigliano. Ma non è la sola ad aver ricevuto le cure del nosocomio.

Lì è stato assistito il padre delle sorelle Aieta, le tre sorelle che hanno sposato tre boss. E quando uno della famiglia viene preso in carico, i boss hanno sempre grande rispetto di medici e personale, ringraziano e salutano con il garbo di chi comanda. Un omaggio, se gradito, non manca mai (...) Capi, figli, affiliati, tutti sono passati nell’ospedale che ha rappresentato per tutti “casa”, famiglia, avamposto. «Quando c’era uno di loro che contava, gli affiliati, i soldati entravano dentro», racconta chi ne ha viste tante in quell’ospedale. E con “dentro” intende in sala operatoria, per monitorare che tutto andasse per il verso giusto.

Quando invece qualcuno di un clan rivale arrivava, per sbaglio, al San Giovanni, per evitare rappresaglie doveva abbandonarlo subito. «Una volta ne ho visto uscire uno con i tubi ancora attaccati». Ma se non entrano quelli del clan, o i loro rivali, entra la delinquenza comune, la varia umanità che, a volte, ha trattato i medici come terminali di violenza, frustrazione, dolore. Aggressioni, sediate, offese e insulti sono corredo diffuso dei giorni di ordinario lavoro.

Soprattutto i miracoli

Chi ha lavorato per anni al San Giovanni Bosco e oggi è in pensione conosce vita, morte e miracoli di quel luogo. Soprattutto i miracoli, quelli compiuti da bravi medici che hanno salvato da morte sicura centinaia di persone, che fossero criminali o innocenti. «Questo è un ospedale di campo in una zona di guerra. Se vai a Manaus, in mezzo alla foresta amazzonica, trovi il triage, qui fino a qualche anno fa non c’era. Arrivavi e trovavi un vigilante che ascoltava e ti assegnava al medico disponibile. E quando arrivava il “sistema”, il medico doveva essere sempre disponibile». Niente triage, niente accoglienza, tutto affidato a una guardia giurata che smistava paure, urgenze e pesava chi entrava.

Chi abitava di fronte al rione Amicizia era di casa. E l’aneddotica è vasta a confermare il controllo di quell’ospedale. Una volta arriva un ferito grave, un soldato in fin di vita, colpito a morte sul terreno di una guerra di camorra che ha causato centinaia di vittime. Il medico di turno era giovane, inesperto; quando vede il paziente urla di fare presto, di sbrigarsi, di muoversi. Interviene un infermiere esperto a tranquillizzarlo: «Lo devono pulire». Il medico giovane non capisce subito. L’infermiere sussurra qualcosa all’orecchio del chirurgo, e nel giro di poco tempo entrano alcuni affiliati che spogliano il loro uomo di vestiti, cellulare, effetti personali e naturalmente dell’arma che ha addosso. Ora è pulito. Dopo l’operazione, si salva miracolosamente.

Il testo è tratto dal libro Il coraggio delle cicatrici, Utet edizioni

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