“Scrivere come respirare…”, con i puntini di sospensione perché di tutte le altre cose nel diario che teneva da bambina non c’è più traccia, se non questa magna carta, di una riga soltanto, che scrisse quando aveva tredici anni. L’amica geniale è una monaca eremita di 76 anni. Si chiama Mirella Muià, vive nella piccola, solenne Gerace, borgo medioevale della Locride con le sue cento chiese e le sue mura che se alzi lo sguardo dal mare sembrano tirate su dalle dita di un panettiere. Ventuno anni fa sentì che era venuto il tempo di tornare dove era nata.

Le fu affidato un eremo diroccato, una minuscola chiesa bizantina abbandonata. Andava rimessa in piedi. Come forse doveva fare con sé stessa. Le sofferenze patite da bambina emigrata a Genova, il “miracolo” d’essere riuscita a studiare, il trasferimento a Parigi, le amate e sudate carte di Letteratura comparata alla Sorbonne, l’insegnamento, il matrimonio – «finì quasi subito», dice, pacata –, una figlia, Sibilla, che scelse di vivere tra gli indios dell’Amazzonia, dove si trova tutt’ora: anche i suoi le saranno sembrati, allora, mille anni.

Come i mille di vita eremitica di questa terra, la Calabria, percorsa da nord a sud dai monaci che fuggivano dall’Oriente in cerca di salvezza dalle persecuzioni. Tra lo Jonio che sembra ancora parlare greco e il silenzio consolante, mistico, delle montagne di un Aspromonte ormai libero da cliché legati alle gattabuie dei sequestrati e dei banditi latitanti, Mirella poteva ricominciare. A parlare con Dio. A scrivere.

L’infanzia

Sorride, quando domandiamo se la imbarazza il paragone con la protagonista del romanzo di Elena Ferrante. Lei che da bambina solitaria e schiva come un lupo, talentuosa – nata a Siderno, partita per la Liguria ad appena cinque anni, suo padre marittimo, sua madre in casa ad arrangiare il pasto – sognava di comprare libri. Ce l’aveva con Dio anche per questo. Al punto che decise di non crederci più: «Avevo quindici anni, mi domandai all’improvviso come fosse possibile che esistesse un Dio che permettesse tutto quel male. Penso alle condizioni di vita degli emigrati di allora, e alle mie».

Sulle alture di Genova c’erano vere e proprie baraccopoli, sotto quei tetti di latta vivevano centinaia di famiglie siciliane e calabresi. «A Genova – racconta – arrivammo nel ’51. Sentii subito la diffidenza della gente, e le ostilità in classe. Mio padre lo vedevamo sì e no dieci giorni all’anno; mia madre rimediava per come poteva. Ma il peso più grande per me era di non poter comprare i libri».

Scriveva lo stesso, nel frattempo. Lampi, rivoli d’inchiostro, pezzi sparsi. «A volte dialoghi con l’ulivo, con un castagno, con la colomba, avevo una passione per le colombe. Ho perso tutte queste cose, perché ho viaggiato tanto», si rammarica. Poesie, racconti, e quel diario. Quell’incipit, scrivere come respirare. Forse una Regola, ricchissima, potente, di sole tre parole. I libri arrivarono, un giorno.

La maestra

Il prodigio, in quinta elementare, si materializzò con la venuta a scuola di Sonia Orberdorfer. Intellettuale amica di don Milani, era una maestra ebrea scampata alle deportazioni, ma non alla devastazione delle leggi razziali. Nel 1938, quando furono emanate, aveva vent’anni. Le fu proibito di insegnare; morì a gennaio del 2019, a 100 anni, lasciando un’importante e delicata testimonianza di quella follia in un libro, “La tela di Sonia” (La Giuntina).

«Lei riscattò tutto il male, riscattò tutto – ripete, due volte, Mirella –. Accolse dodici di noi bambine sparse. Quelle cioè, come me, che le altre maestre avevano messo da parte. Scrissi un tema, dicevo che non avevamo i soldi per comprare i libri. Lei mi chiese: vuoi che ti presti dei libri? Feci sì, col capo». Il primo fu Il diario di Anna Frank. Era stato appena tradotto e pubblicato in Italia, nel ’56.

Quei prestiti miracolosi proseguirono anche dopo le elementari. Sonia e Mirella non abitavano molto lontane una dall’altra. La prima a Quarto, l’altra a Quinto, due borghi del levante genovese, dove non sembra ancora d’essere in città. Per strada una mattina Sonia Orberdorfer suggerì alla sua ex alunna di chiedere il permesso a sua madre di lasciarla andare ogni sabato da lei.

«Non si vedevano le pareti per quanti libri c’erano in quella casa. Suo zio era stato sovrintendente di Palazzo Pitti a Firenze, fu licenziato con le leggi razziali. Aveva scoperto De Chirico e Savinio (Giorgio e Andrea De Chirico, ndr). Vendette le loro tele per far fuggire le figlie negli Stati Uniti. Fino a che sono partita per Parigi che avevo 23 anni, lei ogni sabato mi riempiva una borsa di volumi. Il patto era che il sabato successivo avrei riportato ciò che avevo letto». Marcel Proust, Dostoevskij («quanto ho amato I fratelli Karamazov», sospira), tutti gli altri russi, i tedeschi, la letteratura americana.

Pavese

Casa Orberdorfer era il paradiso. Come le scalette di casa Pavese, a Brancaleone. Il dolce martirio di Mirella, bambina geniale innamorata della letteratura, erano i libri dello scrittore piemontese che il fascismo confinò in quella contrada della Locride nell’agosto del 1935. In quel paese dove «la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare era il mare», quel mare che Stefano (il protagonista, suo alter ego, ndr) «lo immaginava quarta parete della sua prigione» – come si legge nell’incipit de Il carcere, il romanzo breve dell’autore originario di Santo Stefano Belbo, autobiografia di quei tre anni da esiliato – Mirella andava tutte le volte che poteva. Quelle volte che, in estate, si riusciva a tornare a Siderno. Un pellegrinaggio.

Sulla soglia ci restava per ore. Al tempo di Parigi il suo lavoro di ricerca sarebbe poi stata proprio la traduzione dell’unico libro che non era ancora stato tradotto, in Francia, di Cesare Pavese, I dialoghi con Leucò. «Come scoprii, da bambina, quella casa? Avevo una zia a Brancaleone, Ines. La vedi quella casetta? Lì stava Pavese, mi disse un giorno».

Scopriamo così che zia Ines era cognata del maresciallo che si occupava dello scrittore, quello che tante volte, nel romanzo, chiude un occhio quando Stefano va al bar Roma a giocare a carte, che lo lascia libero di recarsi al mare o che lo incita a seguire gli altri uomini a caccia. «Erano diventati amici – racconta, oggi, per la prima volta, madre Muià – al punto che quando la figlia del maresciallo aveva difficoltà a scuola, Pavese gli faceva ripetizioni di italiano e storia. Ho conosciuto anche la signora dei gerani. Era viva quando io andavo a Brancaleone. Si chiamava Alice».

Ne Il carcere, Pavese non fa mai il nome della proprietaria di quella casa, che spesso cita nel romanzo, con i davanzali e i gerani scarlatti. Dove Stefano vide per la prima volta Concia, la domestica protagonista, con Elena, degli amori e delle passioni dell’ingegnere Stefano, alias Cesare: «…quando Stefano risalì verso le case, lungo una siepe polverosa pensava se, invece di quell’Elena, l’avesse abbracciato e baciato la ragazza scalza dei gerani…. l’immaginò gaia e danzante, stupita sotto la fronte bassa, innamorata selvaggiamente di lui…». Concia. La piccola Mirella incontrò anche lei.

Era rimasta schiva e danzante come scrisse Pavese, ricorda. «Uno scoop? Non lo so». Sorride, tornando alle sue icone, al suo giardino, ai suoi gatti. Prima del suo arrivo da Parigi, della scelta di vita da eremita diocesana, questa casa, oggi Eremo dell’Unità, era diventata un luogo di spaccio. Oggi è un sorprendente “monastero” ispirato ai padri dei deserti del Medio Oriente. Un luogo di silenzio dove, citando l’amato Pavese de I mari del Sud, «tacere è la nostra virtù».

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