Gli zingari di Ostia sono mafiosi e molto mafiose sono le loro testate ai giornalisti, è mafioso quel Casamonica che se n’è andato all’altro mondo su un carro funebre trainato da sei cavalli neri e accompagnato dalle note de Il Padrino, i Triassi che vengono dalla Sicilia sono mafiosi, anzi mafiosissimi. Ma in Campidoglio la mafia non c’è e non c’è mai stata. Non sono mafiosi gli assessori che taglieggiano su ogni grande opera pubblica o piccolo appalto di manutenzione, non è mafioso Massimo Carminati che pure ha dato straordinaria prova di sé per almeno trent’anni, non è mafia una classe dirigente di grassatori che finge di non sapere che per il lavoro sporco sono a disposizione celebrità delle periferie come “Spezzapollici”, “Sorca Nera”, “Maciste”, “Cappottino” e “Cappottone”.

Roma nega, ostinatamente nega. E fatica a riconoscere il suo male. Distingue, balbetta, per poi raccontarsi che la mafia è una favola. Da quando, nei primi giorni del dicembre 2014 si è iniziato a parlare di Mafia Capitale, più che un confronto c’è stato uno scontro sulle certezze assolute dei pubblici ministeri e sulle incertezze dei collegi giudicanti. Si sono aggiunte poi le speranze sul cambio di passo di una procura conosciuta da sempre come “porto delle nebbie”, le diffidenze di molti intellettuali, le prudenze interessate della politica, persino il distacco delle frange più consociative dell’antimafia. C’è chi ha anche subito messo le mani avanti: è un’inchiesta monca, si è fermata a un livello basso evitando di puntare in alto. E chi ha ribattuto: meglio, così l’impalcatura accusatoria reggerà con l’associazione mafiosa sino in Cassazione.

Sappiamo come sono andate le cose e al momento, senza addentrarmi sulla decisione della suprema corte che ha sentenziato che non fu Mafia capitale, mi sono convinto che la lettura – nella sua essenza più profonda – sulla questione mafia e Roma l’ho rintracciata su un’agenzia di stampa. La France Presse del 5 novembre 2015, quasi un anno dopo la grande retata di Carminati & soci. Due righe: «La justice italienne a ouvert jeudi le procès des bas-fonds de Rome». La giustizia italiana ha aperto giovedì il processo ai bassifondi di Roma, inserendo a pieno titolo in quei bassifondi consiglieri regionali e comunali, presidenti di cooperative, commercialisti, ex sindaci, manager di municipalizzate e direttori di dipartimenti capitolini. Due righe significative che comunque non possono spiegare la complessità della vicenda, cosa che fa invece un saggio appena arrivato in libreria. È L’assedio. Storia della criminalità a Roma da Porta Pia a mafia capitale (Editore Carocci, pagg 296, euro 19), firmato dallo storico Enzo Ciconte. Ricostruisce il crimine a Roma appunto dalla breccia di Porta Pia a Salvatore Buzzi, passando per gli scandali della Banca romana e dalle grandi speculazioni edilizie del secondo dopoguerra, dalla banda della Magliana a Michele Sindona, dall’agguato giudiziario contro il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi alle trame vaticane.

Nel prologo c’è un’indicazione preziosa: «Una borghesia d’antica e di più recente formazione ha sempre avuto una ritrosia a confrontarsi con il problema del riconoscimento dell’esistenza della mafia, quasi che il solo parlarne significasse sporcare l’immagine della città eterna. Questa classe dirigente ha pencolato dalle posizioni di negazionismo assoluto a quelle che riconducevano le mafie a una questione puramente criminale. Era convinta, questa classe dirigente, che la mafia fosse composta da straccioni...».

Una città che non ha visto o non ha voluto vedere quello che Ciconte chiama appunto “l’assedio”, un crimine che a Roma ha più facce, una capitale d’Italia che «ha un potere mafioso ben radicato».

Non colpevole

Per documentare questo magma sotto la crosta lo storico parte dal 20 settembre 1870 raccontando dei “bulli” romani e da un brigante di nome «Antonio Gasbarrone o Gasparone o Gasparoni o Gasperoni», intorno al quale fioriscono leggende come per tanti altri protagonisti di storie di “cortelli”. Ma ben presto la mappa del crimine di Roma muta, aprono i ministeri, da giù provengono e si diffondono nuove parole come “mafia” e “camorra”, tramonta l’era degli scrocconi e dei ruffiani, la città cambia volto, ci sono le grandi manovre sulle aree senza un piano regolatore: è la prima «tragedia urbanistica di Roma».

Una febbre edilizia che s’incrocia con lo scandalo della Banca romana. Un affaire che investe non solo i vertici dell’istituto di credito ma anche uomini di stato. Testimoni rivelano di avere distribuito «denaro a tutti i presidenti del Consiglio», il processo che ne seguirà, con relativa scomparsa di documenti, finirà come finiscono quasi sempre anche i processi di oggi quando alla sbarra ci sono intoccabili: “Non colpevoli”.

È il 1883 e L’Assedio dedica un capitolo alla costruzione del Palazzaccio, il palazzo di Giustizia di Roma. L’assalto agli appalti, costi che salgono vertiginosamente, crimini finanziari e baracche. Si arriva così al Ventennio, il mito di Roma imperiale, il delitto che scompare dalle relazioni dei procuratori generali e dalle pagine dei giornali. Per il Fascismo va tutto bene, ma quello che c’è sotto riemerge nel dopoguerra. E il primo nome che affiora in superficie è quello di Francesco Coppola “Frank tre dita”, un boss di Partinico che dopo avere trafficato fra gli Stati Uniti, Messico e Cuba, si trasferisce a Pomezia. Acquista 50 ettari di terreno, ufficialmente è agricoltore, ha rapporti con gli apparati ed è ben introdotto nelle alte sfere della magistratura. Ma Roma non si cura di lui, Roma si appassiona alle cronache sul “biondino di Primavalle”, Lionello Egidi, accusato di avere ucciso il 18 febbraio del 1950 una bimba, la piccola Annarella Bracci. Un fantasma è anche Luciano Liggio che, da una clinica sulla Nomentana, Villa Margherita, fugge benché “sorvegliato” dalla polizia. La capitale d’Italia in quegli anni è abitualmente frequentata dalla crema dei mafiosi: Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Joe Adonis, Rosario Mancino, Tommaso Buscetta, Santo Sorge.

Come mafiosi

Il libro di Ciconte, passo dopo passo e decennio dopo decennio, ci porta alla famosa copertina dell’Espresso del 1955 “Capitale corrotta = Nazione infetta”, ai “marsigliesi” che invadono via Veneto («La gang delle tre B», la chiamavano, dalle iniziali dei tre uomini che la guidavano: Albert Bergamelli, Jacques Berenguer, Maffeo Bellicini) e intanto la città cambia ancora: un’altra speculazione edilizia, “il sacco di Roma”. Nell’Assedio è arrivato il momento della banda della Magliana: «A partire dagli anni Settanta viene alla ribalta un prodotto locale originale e inquietante, uno strano miscuglio di delinquenti in cui c’è di tutto: criminali comuni romani estremamente violenti, mafia siciliana con la presenza di Pippo Calò, uomini dell’eversione nera, della massoneria, dei servizi segreti, contatti e rapporti con le mafie storiche: oltre a Cosa Nostra, ’Ndrangheta e Camorra. È mafia? La Cassazione dice di no. Ma, se non è mafia, allora che cos’è stata?».

Si muovono come mafiosi, uccidono come mafiosi, si relazionano come mafiosi ma, tranne qualche poliziotto e qualche giudice, nessuno li vuole riconoscere come mafiosi.

Sequestri di persona, droga, usura, intimidazioni, rappresaglie. Ma mai mafia. La banda della Magliana è una “agenzia del crimine” e Roma si protegge un’altra volta. Anche la magistratura, alla fine, offre il suo altissimo contributo. Per la corte di Assise di Appello la banda della Magliana è mafia, per la Cassazione no. Siamo punto e a capo.

Nella capitale palude all’improvviso qualcosa sembra muoversi. È il 1984 e il procuratore generale, all’apertura dell’anno giudiziario, dice: «Il Lazio, e in modo particolare Roma, è diventato l’epicentro di mafia, camorra e ’ndrangheta, che operano nei settori più disparati e redditizi». Qualche anno dopo la commissione parlamentare Antimafia, presidente Gerardo Chiaromonte, punta l’attenzione sulla “vocazione mafiosa” della capitale. Poi Tangentopoli, gli attentati di Cosa Nostra del 1993, le procure che cominciano a chiedere l’applicazione del 416 bis anche a Roma. Ci sono operazioni poliziesche che coinvolgono calabresi, siciliani e campani, tutti in affari con boss locali.

Ma i prefetti minimizzano. Come Achille Serra: «Dove sono gli omicidi di mafia, le estorsioni, gli attentati? Dov’è l’appropriazione del territorio da parte della criminalità organizzata?». Scrive Ciconte: «L’opinione di Serra è interessante perché ricalca un’opinione diffusa, un vero e proprio luogo comune, stabilendo un nesso strettissimo tra omicidi e mafia: mancando i primi, viene a scomparire la seconda. È un’affermazione che si sentirà risuonare anni dopo, durante mafia capitale, ma che la tragica realtà dei fatti ha mostrato essere infondata. Ci può essere mafia anche senza omicidi».

Nel 2012 si insedia alla procura di Roma Giuseppe Pignatone e, subito dopo, il suo vice Michele Prestipino. E scoprono i Casamonica, sino a quel momento indisturbati. Scoprono i Fasciani e gli Spada a Ostia, i Pagnozzi legati ai Senese, i Rinzivillo di Gela. Ed ecco “Mondo di mezzo”. Qui Ciconte prende una posizione netta. Prima osserva: «A prescindere dal suo esito ha avuto il merito di aprire tra più soggetti – giuristi, magistrati, avvocati, storici, sociologi, giornalisti e intellettuali – un dibattito sulle novità introdotte da quell’impostazione». Poi sostiene: è «incomprensibile» che non sia stata riconosciuta l’associazione mafiosa. Alla fine si dà la spiegazione: «La sentenza della Cassazione è pienamente immersa in un dibattito tutto interno ai giudici della Suprema corte, le cui diverse sezioni hanno espresso nel corso del tempo opinioni contrastanti in merito all’esistenza delle mafie al di fuori delle regioni cosiddette tradizionali». Un dibattito, aggiungerei, decisamente raffinato ma anche vaporoso, molto lontano dalla realtà.

 

© Riproduzione riservata