Tutte le paure portano a Roma, titolava qualche tempo fa il quotidiano francese Libération sullo sfondo di una risata in primissimo piano di Giorgia Meloni. Fascismo in Europa, allertava l’occhiello, gettando apprensione sui valori dell’Unione in pericolo. È la stessa Francia che, nonostante un capo del governo che strizza l’occhio a destra e a sinistra (ma sceglie ministri conservatori), oggi può permettersi di gettare uno sguardo allarmato oltre le Alpi, scorgendo un Paese in cui il razzismo è sdoganato. E come sempre gli stadi sono piccole avanguardie dell’intera società. Nell’Italia dove sono ammissibili moltitudini impegnate nel saluto romano (lo hanno visto in tutto il mondo), è quasi normale che un calciatore venga impunemente preso di mira perché nero. E soprattutto che debba essere lui il primo a prendere posizione. È stato Mike Maignan ad andare dall’arbitro, è stato sempre Mike Maignan ad accusare di complicità tutti quelli che hanno taciuto. La maggioranza silenziosa, siamo abituati a definirla così. Quella maggioranza di cui fa parte anche il tecnico dell’Udinese Gabriele Cioffi: «Meglio parlare di calcio. Non per sdrammatizzare, ma per sorvolare. Noi gente di sport facciamo così».

Le complicità

C’è invece qualcosa che deve aver fatto centro nelle nostre coscienze, perché il mondo sportivo (e non solo) sembra essersi scosso. E il pungolo sono state le parole di Maignan. «Gli spettatori che erano in tribuna, che hanno visto tutto, che hanno sentito tutto ma hanno scelto di rimanere in silenzio, siete complici», ha scritto il portiere rossonero sul suo profilo social. E ancora: «Il club dell’Udinese, che ha parlato solo di interruzione della partita, come se nulla fosse, si è reso complice. Le autorità e la Procura: con tutto quello che sta succedendo, se non fate nulla, sarete complici anche voi». L’io che diventa un noi, che ci coinvolge tutti e ci rende tutti responsabili. Se è vero che le rivoluzioni cominciano con i gesti, quello di Maignan è un atto che potrebbe ribaltare le cose una volta per tutte. È un’occasione. Non va sprecata. Il calcio italiano ne ebbe un’altra qualche anno fa. Era il 2018, l’arbitro Claudio Gavillucci fermò Sampdoria-Napoli per le offese a Kalidou Koulibaly. A maggio arbitrava in Serie A, sette mesi più tardi era sul campo di Vis Sezze-Samagor, campionato Giovanissimi della provincia di Latina. Per molti fu un capro espiatorio. Lui tace. «Ma ci ho scritto un libro: la gente può farsi il parere che vuole». A distanza di anni, Gavillucci ha uno sguardo preciso e analitico sull’episodio di Maignan: «Abbiamo concluso la fase della consapevolezza. Tutti oggi siamo d’accordo che c’è un problema. Se non si fa qualcosa ci ritroveremo l’anno prossimo ancora qui a dirci “Eccoci, ci risiamo”. Nel 2018 qualcuno provò a minimizzare. Addirittura ci furono quelli che dissero di allontanare i microfoni dalle curve, così i cori non si sarebbero sentiti. Invece ho visto che le dichiarazioni questa volta sono state unanimi».

Le norme e i mezzi

Ci sono almeno due ordini di problemi che vanno presi in considerazione. Il primo ha a che fare con la politica e le norme. Gavillucci sostiene che al momento siamo in un vuoto normativo. In pratica servono leggi, e servono adesso. Da applicare poi anche al mondo dello sport. Perché, spiega ancora l’ex arbitro di A, «qui parliamo di reati, siamo in presenza di gente che va allo stadio per delinquere. Non condannerei le società di calcio. Anzi, bisogna supportarle affinché si liberino di determinati soggetti». Lo stadio dell’Udinese ha 300 telecamere, un reticolo di occhi elettronici che permetterà di scovare i colpevoli nel giro di poco. Uno è già stato individuato, si tratta di un 46enne che grida per 12 volte un insulto. Rischia cinque anni di daspo, l’Udinese ha annunciato che lo terrà fuori dallo stadio a vita. Dopo il richiamo alla responsabilità da parte di Maignan affinché nessuno passi per «complice», il dg Franco Collavino lo ha promesso: «L’eventuale Daspo delle autorità giudiziarie ha una durata limitata, noi invece lavoreremo per escludere a vita questi razzisti dallo stadio». Non tutti i club, però, sono dotati di impianti propriamente adatti alla contemporaneità, per molti non sarebbe semplice fare chiarezza in situazioni del genere. Anche se è dura da ammettere, Gavillucci dice che «in Italia le tifoserie organizzate sono le vere proprietarie degli impianti, fanno quello che vogliono, e gli impianti diventano zone franche». In Inghilterra, l’osservatorio privilegiato di Gavillucci, che ora ricopre il ruolo di presidente di una associazione che promuove l’arbitraggio e i valori di solidarietà e comunanza in giro per il mondo, non è che non esistano casi: è il trattamento a essere differente. «In Inghilterra commettere un atto del genere dentro uno stadio è aggravante. In Italia sembra quasi un’attenuante».

L’interruzione

Eppure le regole esistono. La Federazione italiana ha oscillato per diversi anni tra una politica più dura e una più leggera. Dal 2018 si è centrata su un principio di interruzione temporanea delle partite in caso di una prima manifestazione di razzismo e definitiva in caso di recidiva. Ma non è mai stata applicata perché sono l’arbitro o gli ispettori della commissione di disciplina che hanno il potere di fermare il gioco. Il responsabile dell’ordine pubblico può mettere fine prematuramente alla partita. Gli ispettori, ai quattro lati dell’impianto, generalmente si accontentano di rilevare le manifestazioni razziste e di scriverle nei loro rapporti. L’arbitro è molto spesso concentrato sul gioco. Però, dice Gavillucci, «i direttori di gara applicano le regole: non le fanno. In casi del genere bisogna usare buon senso, togliersi la divisa e diventare compagno di squadra. La classe arbitrale ha capito l’importanza del problema. C’è maturità, lo si è visto nel comportamento di Maresca: è stato esemplare. Io sono stato un precursore».

Intanto in Spagna si è deciso di imprimere una svolta alla lotta al razzismo nel mondo del calcio: a partire dalla prossima stagione, in caso di episodi di razzismo non sarà più l’arbitro a dover decidere se sospendere o meno la gara, ma le forze dell’ordine. A segnare il cambio di passo, secondo quanto anticipato da El País, è una direttiva del governo.

La comunicazione

C’è poi anche un chiaro problema di comunicazione che coinvolge – a catena – giocatori, società, media. La gestione delle dichiarazioni da parte dei protagonisti è ormai totalmente controllata. Tutto passa per gli uffici stampa. I club sono blindati. E poi vengono fuori frasi come quelle di Cioffi: «Sorvoliamo. Noi gente di sport facciamo così». E dunque: se Maignan non avesse scritto di suo pugno, se non avesse denunciato, cosa sarebbe successo? Vent’anni fa Marc Zoro, che giocava nel Messina, fece la stessa cosa di Maignan: uscì dal campo, disse basta. L’onda mediatica all’epoca della preistoria social fu meno determinante. «Maignan non doveva rientrare. La soluzione è chiudere gli stadi sei mesi», ha detto lo stesso Zoro in queste ore. A fare la differenza oggi è stato l’urlo sotto forma di post fatto da Maignan.

«Se non avesse preso in mano la situazione, forse non se ne sarebbe parlato», dice ancora Gavillucci, «i calciatori invece hanno un potere, dovrebbero unirsi, diventare un’unica squadra, loro possono prendere in mano le cose. Dire: “Basta, non giochiamo più”. Emarginare gli idioti».

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