Maradona è morto, Napoli ha perso l'ultimo re. Maradona per Napoli è stato un figlio, napoletano, nato in Argentina. Venerato come Totò, Pino Daniele, Massimo Troisi, Eduardo De Filippo. Lungo i vicoli sorgono cappelle votive, murales a lui dedicati, luoghi ora coperti di fiori e lumini in segno di lutto.

«Napoli è la mia casa», ripeteva Maradona. La città piange chi l'ha amata, chi l'ha difesa, chi non l'ha mai tradita. Per questo non è morto solo il più geniale giocatore che il calcio abbia mai conosciuto, ma per tutti i napoletani è morto un re per quel cordone ombelicale che l'ha legato alla città fin dal primo giorno, il 5 luglio 1984, quando davanti a 70mila persona palleggiò e iniziò la presa di una città. Maradona, a Napoli, ritrovò l'infanzia, le origini: gli otto fratelli, la miseria, la fame nera.

«Voglio diventare l'idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires», disse e quei bambini sono diventati adulti avendo negli occhi le sue magie e nelle orecchie le sue parole. Una volta, si ritrovò in un campo di fango per una partita di beneficenza, un'altra ad insegnare ad un raccattapalle come sfidare le leggi della fisica e fare gol dalla linea di fondo nel punto in cui incrocia la striscia dell'area piccola del portiere.

Quel raccattapalle, come raccontò Massimo Gramellini, era Gianfranco Zola. Un'altra a incantare giornalisti e presenti palleggiando con una pallina da tennis, ci riuscì anche con un’arancia. Andò dal papa e non le mandò a dire.

«Sì, ho litigato col Papa. Ci ho litigato perché sono stato in Vaticano, e ho visto i tetti d'oro, e dopo ho sentito il Papa dire che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa!». Un combattente che ha oscillato tra alti e bassi, tra polvere e altare, ma in città è stato subito mito. 

A Napoli, Diego è quella punizione contro la Juve degli Agnelli, contro i padroni del vapore, per i meridionali napoletani che venivano accolti al nord con le scritte «non si affitta ai cani e ai napoletani», per quelli vessati da anni di pregiudizi, per gli striscioni razzisti esposti negli stadi del nord ogni quando arrivava il Napoli.

«C'a luvate e schiaff a faccia (ci ha tolto gli schiaffi dal viso)», raccontavano quei meridionali. «C’era la sensazione che il Sud non potesse vincere contro il Nord. Andammo a giocare contro la Juve a Torino e gliene facemmo sei: sai che significa che una squadra del Sud gliene mette sei all’avvocato Agnelli?», disse Maradona intervistato da Emir Kusturica. C'è una data che testimonia una storia. Era il 3 novembre 1985, giorno di Napoli-Juve.

La vecchia signora venne a Napoli, Maradona fu pestato in campo come ogni santa domenica. L'arbitro fischia una punizione in due in aria a favore del Napoli. La distanza venne calcolata con il solito pallottoliere stile Juve (come quando contano gli scudetti) dovevano essere nove metri, ma erano cinque. Qualche anno dopo raccontò tutto Giuseppe Bruscolotti, detto pal e fierr (palo di ferro), al programma Storie. «Abbiamo parlato con l'arbitro per evidenziare che non c'era distanza.

Dopo un poco Maradona si avvicinò e mi disse 'Tirò lo stesso, tanto gli faccio gol comunque». La palla si arrampicò in alto, alla sinistra di Stefano Tacconi, portiere bianconero, e quel giorno un popolo capì che anche lo scudetto non era più speranza vana e sognare non era più proibito.

In quello stadio, in curva B, ho passato per anni le mie domeniche, era lì che Diego restava onnipresente. Anche quando la squadra affondava in C, quello restava l'appiglio, il ricordo, il riscatto per sempre. C'era, ogni volta, un gagliardetto, una vecchia foto che incrociavi tra le mani di un venditore ambulante.

«Diego, Diego, accattatev a cartulin (comprate la cartolina)». Diego in campo con Careca, Diego che palleggiava, Diego di spalle con la maglia numero 10, Diego con la squadra dello scudetto. Diego, sempre Diego. «Ua Maradona» e ogni tanto ne compravo una per incorniciarla, per averla con me.

Foto che affollano le stanze di chi è stato bambino e di chi è bambino oggi. Ieri un ragazzino di Napoli ha lasciato un ricordo scritto a penna su un foglio: «Nonno ora lo puoi abbracciare». E' morto, è vero ed è morto troppo presto, ma vale sempre quello che recitava un vecchio striscione: «Chi ama non dimentica».

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