L’elenco in mano agli investigatori non lascia spazio a interpretazioni: dalla Lombardia alla Puglia, dal Friuli alla Calabria, tutte le venti regioni invase. Non c’è luogo d’Italia risparmiato dalla truffa delle mascherine fuorilegge. Fuorilegge perché, è stato scoperto per ora dalle indagini, che non garantivano la protezione indicata. Mascherine pirata usate da medici, infermieri, sanitari in prima linea contro il Covid-19. Un danno al quale si somma la beffa: sono state acquistate in gran parte dall’organismo che più di tutti avrebbe dovuto incarnare premessa di affidabilità, il commissariato per l’emergenza all’epoca guidato dal manager di Invitalia Domenico Arcuri. L’aggravante è che sono finite in importanti strutture sanitarie del paese, luoghi di cura e di ricerca contro il virus. I documenti ottenuti consentono di rivelare non solo le regioni, tutte, dove sono state consegnate i dispositivi di protezione, ma anche di fornire una panoramica, non completa, delle strutture ospedaliere che hanno utilizzato le mascherine sospette. È la geografia del disastro che ha portato all’apertura di un’inchiesta della procura di Gorizia e condotta dalla guardia di finanza della città di confine del Friuli Venezia Giulia. Ecco dunque dove sono stata consegnate le mascherine fallate provenienti dalla Cina e distribuite senza alcuna verifica nelle arterie della sanità italiana.

Il Sacco di Milano

Il nome che farà più discutere perché simbolo dell’impegno contro la diffusione del contagio fin dall’inizio della pandemia è l’Ospedale Sacco di Milano. Qui sono arrivate a migliaia, nei mesi in cui si continuava a morire. C’è un dato fornito dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso sui contagi del personale ospedaliero negli ospedali milanesi: l’aumento dei contagi al Sacco e al Fatebenefratelli è notevole, tra i medici, rispetto alla prima ondata, è del 108 per cento, tra gli infermieri del 208 per cento.

In Lombardia le mascherine acquistate dal commissario Arcuri sono state fornite anche al Fatebenefratelli e a molte altre strutture. Le mascherine sotto inchiesta sono state distribuite a partire dall’estate 2020 fino a gennaio scorso, dalla fine della prima ondata, quindi, e per tutta la seconda. Dal gruppo spiegano che non hanno notato picchi di contagio, anche perché i sanitari hanno sempre adoperato anche altri strumenti di protezione come le visiere. Massimo Galli, direttore reparto malattie infettive del Sacco, dice: «È una schifezza il fatto che non si lavori con una mascherine che non funziona, non a norma».

Nell’allegato alla notifica di sequestro delle mascherine firmato dalla guardia di finanza di Gorizia e dal nucleo di polizia economico-finanziaria sono indicati 21 indirizzi, dalla regione Emilia Romagna all’Azienda ligure sanitaria, dalla regione Lombardia alla Calabria, che corrispondono con i luoghi di destinazione delle mascherine pericolose.

In Puglia sono finite nei magazzini e usate al Policlinico e all’istituto Oncologico di Bari, all’ospedale Riuniti di Foggia, al Miulli di Acquaviva delle Fonti, all’istituto di ricerca De Bellis di Castellana Grotte, all’Asl di Lecce, di Brindisi, di Foggia, di Taranto e di Barletta. Sempre in Puglia sono finite, confermano fonti investigative, alla Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, fondato da Padre Pio e diventato centro Covid per volere del presidente della regione Michele Emiliano. C’è anche l’istituto Panico di Tricase, nel Salento.

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L'inizio dell'indagine

A dicembre negli ospedali del Friuli Venezia Giulia la domanda più diffuda era: «Ma perché noi medici continuiamo ad ammalarci e a morire nonostante le protezioni indossate?». Un quesito che ha trovato una prima risposta con alcuni controlli a campione effettuati dalla guardia di Finanza di Gorizia, guidata dal capitano Enrico Caputo, coordinata da Paolo Ancora, pubblico ministero della procura cittadina, indagine che segue personalmente il procuratore capo Massimo Lia.

I primi risultati confermavano la difformità tra quanto riportato sulle scatole e il contenuto dei dispositivi di protezione. L’indagine è proseguita e si è allargata. A distanza di mesi è chiaro quanto accaduto, in Friuli così come nel resto d'Italia sono finite mascherine, spacciate per dispositivi di protezione FFP2 (o Kn95 in Cina), ma anche FFP3 che avevano un coefficiente di penetrazione anche dieci volte più alto di quello previsto. Praticamente, nel caso di un modello, la mascherina doveva avere una capacità di penetrazione del 6 per cento e, invece, risultava del 60 per cento, dieci volte superiore.

La prova effettuata con l’olio di paraffina ha scoperto la mega truffa che ha conseguenze gravi per chi crede di essere protetto e, invece, è esposto al contagio. Alcune mascherine non potevano neanche essere definite dispositivi di protezione, bastava una semplice verifica in laboratorio. Controlli che il Cts, Comitato tecnico scientifico, non ha realizzato utilizzando le deroghe previste dalle norme emergenziali e “fidandosi” solo di un monitoraggio documentale attribuendo ogni responsabilità al produttore che, però, è cinese, dunque difficilmente punibile dalle autorità italiane. Di certo in Friuli Venezia Giulia sono le mascherine sono state date all’ospedale Santa Maria di Udine e al Cattinara di Trieste.

«I medici sono andati a intubare malati con mascherine inefficaci, che non erano neanche assimilabili a dispositivi di protezione», è la preoccupazione che emerge dai racconti di chi lavora nelle protezioni civili di mezza Italia. E questo è uno dei fronti ancora non ufficiali dell’inchiesta di Gorizia: capire e poi dimostrare se l’uso di dispositivi di protezione fallati ha contribuito alla diffusione del virus, ha provocato il contagio di medici ed eventualmente la morte di alcuni sanitari.

Proprio alle protezioni civili regionali, nei giorni scorsi, è arrivata la richiesta proveniente dalla guardia di Finanza di Gorizia di restituire migliaia di mascherine, ancora stoccate, che non sono a norma. Si tratta di 12 modelli, nove di questi sono stati comprati dal commissariato per l'emergenza Covid, all'epoca guidato da Domenico Arcuri.

Gli stessi consorzi dell’affaire Benotti-Arcuri

Sono almeno 195 milioni le mascherine non a norma provenienti dalla Cina e appartenenti alla mega commessa affidata a due consorzi asiatici. Consorzi che, secondo alcuni elenchi ottenuti e pubblicati dalle regioni, distribuiscono un certo di tipo di modelli di mascherine FFP2 e FFP3. Stesse sigle di aziende e modelli di mascherine importate che ritornano anche in un’altra inchiesta sugli affari milionari in tempo di covid: l’indagine, cioè, che ha coinvolto il giornalista Mario Benotti, indagato per traffico d'influenze insieme agli altri imprenditori destinatari in tutto di parcelle pari a 72 milioni di euro per aver mediato nella compravendita dei milioni di dispositivi destinati alla struttura di Arcuri, che invece nella medesima indagine romana è indagato per il reato di peculato.

Benotti si è difeso spiegando che il mediatore non ha alcuna responsabilità sulla qualità delle mascherine, i controlli spettano agli enti preposti, e che non è dimostrato che le mascherine fallate corrispondano a quelle importate attraverso la sua mediazione.

Le indagini dei finanzieri però confermano che nove modelli su dodici non a norma sono stati importati dagli stessi consorzi utilizzati nella maxi commessa mediata da Benotti. Abbiamo chiesto al commissariato di fare una verifica ulteriore, accertare la corrispondenza tra le mascherine non a norma, indicate dalla finanza, e quelle importate grazie alla mediazione di Benotti e soci. «Da una prima ricerca risulta un solo modello di mascherine acquistato dalla struttura, gli altri non sono proprio presenti negli elenchi, ma nei prossimi giorni continuiamo la nostra ricerca», spiega l’ufficio stampa della struttura guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo.

A Roma si indaga su persone note per traffico d'influenze e peculato, a Gorizia contro ignoti, al momento, per importazione di prodotti non conformi, ma l'indagine potrebbe presto avere un altro titolo di reato: la frode in pubbliche forniture. Le perquisizioni effettuate dai militari della finanza hanno riguardato anche gli uffici di Invitalia, che Domenico Arcuri ha continuato a gestire durante l’incarico da commissario straordinario per l’emergenza. «I prodotti sono state certificati da Inail e dal Cts», rispondono da Invitalia. 

L'orizzonte investigativo friulano potrebbe però portare a verifiche mirate, con consulenze e analisi, per escludere che le mascherine fuorilegge abbiano contribuito alla diffusione del contagio. La delega di indagine potrebbe allargarsi per capire l’eventuale variazione dell’indice di mortalità negli ospedali che hanno usato in questi mesi il prodotto truffa. All’esito di questo studio l’ipotesi della procura potrebbe virare in strage colposa.

La procura di Gorizia ha sequestrato intanto 65 milioni di mascherine: erano ancora stoccate nei magazzini del commissariato per l’emergenza. Un numero impressionante, una per ogni residente in Italia. Tuttavia solo una parte, perché almeno 130 milioni di pezzi arrivati con i lotti dei due consorzi cinesi sotto accusa è stata già distribuita e utilizzata. Ora scopriamo, dalle ipotesi di chi indaga, che non erano a norma.

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