l più grande successo di McDonald’s è stato riuscire a diventare invisibile. Negli anni Novanta e 2000 era il nemico politico per eccellenza, un brand che rappresentava l’essenza del collasso sociale ed ecologico. C’erano aperture che diventavano battaglie culturali, come quella di Altamura del 2001, con la rivalsa della focaccia locale. Due anni prima i produttori francesi di roquefort ne smontarono, letteralmente, uno nel Larzac: nacque così il mito di José Bové, l’allevatore ribelle e baffuto del movimento no-global di Genova 2001.

Nel 2004 usciva Super Size Me, il documentario stunt di Morgan Spurlock costruito sull’autodistruzione a mezzo Big Mac, precursore lo-fi del cinema vegano militante alla Cowspiracy e Seaspiracy. Insomma, dopo mezzo secolo al servizio dell’industrializzazione e della democratizzazione della ristorazione, il fast food a inizio millennio si era trovato a essere l’epicentro di ogni stigma politico. Vent’anni di crisi climatica e finanziaria dopo McDonald’s e le altre grandi catene di fast food sembrano ora zone politicamente neutre, punti di passaggio che si fa quasi fatica a riconoscere e a trovare nelle città, a metà tra non luoghi e scenografie.

Da noi McDonald’s ha 670 ristoranti, serve 400 milioni di panini all’anno e 34 milioni di caffè e cappuccini (silenziosamente, è diventata anche la più grande caffetteria d’Italia), Burger King ha 175 sedi e punta a raddoppiare l’offerta. Sono in generale aziende che non comunicano volentieri, tranne quando si tratta di mostrare successi presunti o reali in fatto di sostenibilità, filiere italiane e packaging biodegradabile. Su scala globale l’industria vale 907 miliardi di dollari di fatturato all’anno, dati in crescita continua (2020 escluso). da solo (a proposito di autodistruzione).

Dentro al Mac

Non entravo in un McDonald’s da diversi anni, l’ultima volta volta era stata una sera di pioggia dopo aver visto Marriage Story da solo (a proposito di autodistruzione).

Scelgo quello che si trova di fronte al Duomo. A Milano, lungo la linea rossa della metropolitana, andando verso il centro, ce n’è quasi uno a ogni fermata, strategici e discreti.

È un martedì sera, gioca l’Inter in Champions League, c’è poca gente in giro, una cantante lirica si esibisce in piazza mentre la playlist dentro il McDonald’s propone una canzone semi-triste di Justin Timberlake, poi una molto triste di Sia, poi una abbastanza triste dei Coldplay. Con la sua selezione, Radio Mac sembra suggerire: non mentiamoci, se sei qui a cena qualcosa è andato storto, se non nella tua vita, almeno nella tua giornata, ma non è il caso di drammatizzare, sei in un posto sicuro.

Senza impegno

Come spiega Michele Fontefrancesco, antropologo del cibo e co-autore de Il cibo del futuro: produzione consumo e socialità, «Le grandi catene di fast food continuano ad avere successo perché sono luoghi neutri, facili e rassicuranti».

È questo il primo tassello della loro rilevanza contemporanea: in città dove il cibo è diventato un’esperienza performativa e identitaria, difficile e ansiogena, un fast food è al contrario una mezz’ora scarica da qualsiasi impegno culturale e cognitivo, cibo a riposo dall’ego. 

«Uno dei motivi dell’esplosione delle catene negli anni Settanta e Ottanta era stata la crescita dei divorzi», prosegue l’antropologo. «Un padre separato poteva portarci i figli per qualche ora, per fare insieme una cosa facile, magari non conoscendone benissimo gusti e abitudini. Il fast food era, ed è, una risposta a questi bisogni». All’interno del locale ci sono gruppi di adolescenti che se la prendono comoda e sono i veri padroni del posto, poi ci sono un paio di coppie e tante persone da sole, a fine turno di qualcosa, di passaggio. È come stare in un aeroporto, un’esperienza di transito, un modo per uccidere il tempo.

Esperienza smaterializzata

Mi avevano avvertito che l’esperienza sarebbe stata molto più digitale di quella che ricordavo. Smaterializzata, mi hanno annunciato.

Spiega Danny Klein, direttore di QSR Magazine e uno dei massimi conoscitori del settore: «La pandemia ha portato cambiamenti irreversibili nell’approccio tecnologico della ristorazione veloce, perché c’è una propensione diversa delle persone al digitale e perché si sono scoperti margini di efficienza che nessuno sospettava».

Da McDonald’s si può scegliere cosa mangiare da un’app prima di arrivare. Se ordino mentre sono ancora in metropolitana permetto al flusso e ai ricavi di scorrere in modo più fluido, occupo meno tempo e meno spazio, la vera equazione del fast food è che non devono essere veloci solo la preparazione e il servizio, devono esserlo anche l’esperienza e il consumo. Comunque, l’app non l’ho scaricata, quindi ordino a uno dei chioschi digitali all’ingresso. Il primo non funziona, è inerte, per quanto io prema e spinga non dà segni di vita. Il secondo nemmeno. Mi controllo il dito, non si sa mai. Il terzo sembra andare, ma al momento del pagamento si blocca di nuovo, sembra di essere tornati ai tempi di Windows Vista, è come quando vuoi far funzionare la stampante in uno di quei giorni in cui la stampante non ha voglia di funzionare.

Arriva una cameriera, mi spiega che il sistema di pagamenti con carte è saltato all’improvviso per un guasto, ma posso fare alla cassa, in contanti. Si scusa, si scuserà anche la persona alla cassa, non ci sarebbe bisogno di tutte queste scuse, sono in generale tutti molto gentili. Esausti, ma gentili.

Devo tirare fuori le banconote come se fossimo al tempo dei moti della focaccia di Altamura, ma è solo un glitch del sistema, in realtà tra vent’anni potrebbe non esserci più nessuno qui, a parte me, il mio panino e gli altri clienti. «Siamo in una fase di passaggio dell’industria, la robotica sarà la grande tendenza dei prossimi decenni per le grandi catene», spiega Klein. «Robotica nella preparazione, robotica nel servizio, dietro le quinte e in scena». .

La Tesla di settore, l’azienda in grado di fare quello che fanno le start up, cioè muoversi velocemente e rompere le cose, si chiama Miso Robotics, «miso» sta per mise en place alla francese, non per l’insaporitore asiatico. Vendono robot friggi patatine e prepara bevande, si chiamano Flippy e Sippy, sono in tutto già cinque brevetti e già diverse catene clienti negli Usa: Chipotle, White Castle, Buffalo Wild Wings e Panera Bread. Il loro slogan è obiettivamente clamoroso, «making restaurant operations safer, easier and friendlier», rendiamo i ristoranti più sicuri, facili e amichevoli.

Fast casual

Il fast food come lo conosciamo oggi nasce tra gli anni Quaranta e Cinquanta negli Stati Uniti, quando vengono ingegnerizzate le linee di cucina delle tavole calde, il servizio viene destrutturato, il prodotto diventa uno standard nazionale e poi globale e l’economia di scala diventa tutto.

«Il risultato è che oggi facciamo spesso confusione tra cose diverse: street food, cioè il cibo che si mangia con le mani per strada, ristorazione veloce nel senso di accesso facile e veloce al cibo e infine il junk food, cioè il cibo spazzatura», dice Fontefrancesco.

Un fast food può avere una, due o tre di queste caratteristiche, dal punto di vista del consumatore quello che conta è mangiare velocemente e spendere poco. Dopo essere stati a lungo educati a un certo di esperienza dal panino veloce americano, nelle città italiane il boccone rapido standardizzato è diventato un metodo, un format diffuso, grazie al quale se non altro ci si risparmia il grande tratto distintivo di tutta la ristorazione non fast in Italia: la generica ostilità verso i clienti. In questo modo tutto o quasi può diventare fast food o la sua variante leggermente meno convulsa, il fast casual. Secondo l’antropologo «Da questo punto di vista, cioè quello del consumatore, il kebab è un grande fast food diffuso, così come l’esplosione delle catene di poke».

Il piatto hawaiano a base di riso è l’ennesima moda gastronomica che in pochi anni ha divorato se stessa, oggi è uno degli indizi più impresentabili della gentrificazione.

Cibo da Pmi

Da un punto di vista tecnico, il poke o il kebab rispondono a tutti i principi del fast food tranne uno: la scala industriale. È questo il pensiero di Domingo Iudice, che è uno dei fondatori di una piccola catena di successo partita in Puglia, Pescaria, il panino veloce a base di pesce fresco.

«In Italia abbiamo capacità di prodotto ma non di impresa, è per questo che non siamo ancora riusciti a creare un grande brand internazionale della pizza. Siamo ancora sulla scala delle Pmi adattata alla ristorazione, un contesto perennemente padronale in cui si lavora solo sulla quotidianità e sull’urgenza». Un caso di studio opposto, che arriva dall’altra parte del mondo ed è spesso citato è quello di Jollybee, il fast food filippino (presente anche in Italia), un colosso allo stesso tempo globale e locale del pollo fritto, che ha capitalizzato innanzitutto sulle diaspore filippine ed è presente in ogni continente con oltre seimila sedi. «È una tendenza. Le strategie non sono più costruite globalmente, ma su areali più limitati, in risposta alle esigenze e ai gusti locali, intorno al proprio nucleo identitario», dice Fontefrancesco.

Gli elementi identitari

All’omologazione della M gialla si è affiancata la capacità di essere qualcosa di leggermente diverso su ogni mercato, ascoltando e rimodulando. In Italia McDonald’s ha il BigMac, ma anche il panino speck e asiago, i panzerotti mozzarella e pomodoro e la faccia di Joe Bastianich a certificare lo spirito italoamericano globale.

«Il futuro del fast food è radioso», secondo Iudice, «nei periodi di crisi economica come quello che viviamo il servizio veloce ed economico tende a crescere, oggi il mercato risponde in modo molto sensibile anche a piccolissime variazioni di prezzo, nell’ordine di uno o due euro. Oggi noi offriamo un pasto a base di pesce a otto – dieci euro, la nostra concorrenza oggi è anche il supermercato, dove a quei prezzi il pesce non può essere mangiato, da noi sì, con alta qualità, grazie all’economia di scala. I McDonald’s non sono vuoti perché, da un certo punto di vista, quella che svolgono è una missione sociale. Le persone hanno bisogno di mangiare e di farlo sotto un certo tetto di spesa. Il panino può essere criticato dal punto di vista nutrizionale, ma difficilmente sarà brutto o sbagliato». Il fast food, insomma, come esperienza di ristorante per tutti e come promessa che viene sempre mantenuta. È il secondo tassello fondamentale della rilevanza del fast food: un orizzonte stabile per un futuro incerto.

Buoni o cattivi

Il terzo e ultimo tassello ci fa tornare al punto di partenza: come le grandi catene siano riuscite a spostare almeno in parte il fardello dello stigma sociale, a non essere più i cattivi nella stanza, a mettersi in qualche modo sopra la soglia di rispettabilità.

Nell’epoca del greenwashing, è innanzitutto un problema di immagine. McDonald’s punta sulle filiere locali (85 per cento da produttori italiani), il ricco menu di insalate e la frutta gratis, i contenitori biodegradabili (al 100 per cento riciclabili entro il 2025), i ristoranti alimentati da rinnovabili e addirittura le colonnine per ricaricare l’auto elettrica. Come dice Klein, «se punti alla Generazione Z devi sempre essere in grado di trasmettere la sensazione di avere dei valori, che poi la sostenibilità sia reale o no lo scopriremo tra decenni, intanto il business è oggi». McDonald’s ha annunciato l’impegno di azzerare le emissioni al 2050, difficile crederci quando si è uno dei più grandi compratori di carne di manzo al mondo. Le cannucce di carta o i pannelli solari non sono niente in confronto alle emissioni di tutta la filiera bovina. È per questo che è Center for Biological Diversity ha definito gli impegni climatici di McDonald’s un «trucco contabile». La carne di manzo è un quarto di tutte le emissioni prodotte dai sistemi alimentari globali, che sono a loro volta un terzo di tutta la crisi climatica.

Le emissioni globali di questa catena del valore per i suoi 39mila ristoranti sono superiori a quelle di diversi paesi europei. Per contenere l’aumento delle temperature entro soglie compatibili con la vita, a un certo punto ci si deve porre la domanda su quanto sia sostenibile un modello di business che vende 2,5 miliardi di panini di carne di manzo all’anno in tutto il mondo.

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