Quando qualcuno tira in ballo l’influenza c’è sempre da procedere con i piedi di piombo. A fine carriera i segretari del Pcus, da Breznev ad Andropov e Cernenko, erano soliti contrarre il virus in questione almeno secondo la propaganda ufficiale; prima di scoprire che, invece, erano già defunti. Non è però il caso di Tiger Woods la causa del cui ritiro, clamoroso nei modi, al secondo giro del Genesis Invitational a Los Angeles la settimana scorsa, pare sia stata davvero quella. Tiger (in perfetto stile Tiger: mai nulla avviene senza che causi un boato) era arrivato al tee della buca 7.

Ha eseguito il primo colpo e dopo si è accasciato facendosi trasportare di corsa alla club house davanti alla quale sono arrivati un’ambulanza e pure un mezzo dei vigili del fuoco, quest’ultimo forse per spegnere l’epidemia che il virus avrebbe potuto scatenare. Il 15 volte vincitore di titoli major si è ripreso grazie ai sali ed è pronto, a suo dire, per i due obiettivi che si è posto per il 2024: disputare un torneo al mese e soprattutto trasformarsi in un “corpus golfisticus”, il padre-padrone-ispiratore del golf, sport che ha dominato per un ventennio alla stregua di Jack Nicklaus e Arnold Palmer.

L’effetto Arabia

Uno sport che sta vivendo una delle fasi più tortuose della sua storia. I sauditi hanno dato il via ad una delle loro operazioni di sportswashing di maggiore impatto inaugurando la LIV, una lega golfistica ipermiliardaria, concorrente dello storico Pga Tour. Un fatto che ha portato a una spaccatura: chi ha aderito alla LIV è stato escluso in un primo momento dagli eventi Pga. A metà dell’anno scorso i due contendenti parevano aver raggiunto un accordo con una fusione: passo che ai più era sembrato come un tuffo degli americani nelle grinfie zannute e petrodollarate dei sauditi. Ma poi le trattative per l’accordo sono andate e continuano ad andare per le lunghe: per non perdere tempo l’attuale n.3 al mondo, il basco Jon Rahm, ha accettato di legarsi alla LIV per la modica somma di 500 milioni di dollari.

In questo contesto conflittuale Tiger si presenta come l’uomo del presente e del futuro. Tentando un’operazione non solo cosmetica, in grado di rivaleggiare con quella che ha compiuto da atleta: abbattere il muro della bianchitudine cromosomica del golf e affermarsi come il primo afroamericano capace di dominarlo e in modo gargantuesco. L’operazione è quella di capitalizzare non solo o non tanto i suoi successi su tutti i green del pianeta ma soprattutto la sua conclamata fragilità interiore, la causa dei ripetuti rovesci personali in cui è incorso.

Vale la pena di ricordare la sua fuga dalla casa in cui viveva con la prima moglie, Elin, con la medesima che lo inseguiva pare con una mazza da baseball (una sorta di ulteriore contrappasso per un golfista) dopo aver scoperto i suoi ripetuti tradimenti. Con conseguente perdita di controllo dell’auto e fine corsa contro un albero.

Poi la scoperta della sua dipendenza dal sesso con fuga a gambe levate (era il 2010) di molti suoi sponsor e conseguente scandalo mondiale. Per poi sbarcare al punto più basso: l’incidente automobilistico nel 2017 a Los Angeles, l’arresto e foto segnaletica da ultimo dei delinquenti di strada con lo sguardo perso nel vuoto, la barba sfatta, le occhiaie pesanti. E la successiva confessione della dipendenza dai farmaci, molti antidolorifici che Tiger assumeva (e qui sta il punto di contatto fra la fragilità interiore e quella del corpo) per sopportare i dolori alla schiena e alle gambe che da anni lo affliggevano.

Le prospettive

Questa sorta di crocifisso golfistico e non, lavora oggi per vivere una nuova resurrezione come erede della tradizione e come imprenditore capace di assicurare allo sport che ha dominato un futuro che non sia deciso a Riad. Intanto ha fondato pure lui una lega (la TGL) che organizzerà, a partire dal 2025, un campionato a squadre indoor.

Poi è entrato nel board della PGA con la qualifica di rappresentante dei giocatori: lo ha voluto a gran voce Rory McIllroy in opposizione all’attuale commissioner Jay Monahan, “reo” di avere promosso l’accordo con i sauditi senza consultare adeguatamente i giocatori. E a segnare il nuovo inizio ha abbandonato lo sponsor Nike cui era legato da un’era geologica e si è legato al marchio Sun Day Red, rosso come il colore che la madre Kultida identificava con il potere.

Tiger ha deciso di mettere il suo corpo a servizio del golf. Vuole essere il golf. Aspira, cristologicamente, a salvarlo. Le sue voglie imprenditoriali le asseconda con una catena di ristoranti (“The Woods”), una di campi da minigolf (“Popstroke”) e un bar fighetto a New York le cui quote divide con Justin Timberlake. Intanto disegna campi da golf in tutto il mondo e dopo la sconfitta non proprio elegantissima del team Usa nella Ryder Cup di Roma ha più o meno velatamente chiesto di essere lui a guidare i suoi connazionali contro l’Europa a New York nel 2025.

Il suo obiettivo non è essere un dirigente ma essere il suo sport, con la stessa determinazione con cui ha vinto a Augusta quando gli afro-americani manco potevano immaginare di valicare i cancelli del circolo. Chissà se giocherà in Georgia nel prossimo aprile, lui che un anno fa si ritirò a metà del terzo giro perché non riusciva più a camminare. Certo è che non sarà un’influenza a fermarlo.

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