La sintonia è grande tra il premier Mario Draghi e la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma non al punto da rimettere in discussione il punto fermo della politica migratoria europea dell’ultimo decennio: gli sbarchi sono un problema italiano, non europeo. Nel 2021 finora sono arrivati sulle coste italiane 19.119 persone, contro le 6.184 del 2020 e le 2.390 del 2019, alcune hanno diritto d’asilo, altre sono migranti economici che vanno incontro all’ipotesi di rimpatrio. Ma mentre i centri di accoglienza a Lampedusa o Pantelleria tornano a essere saturi come prima della crisi da Covid, dagli altri paesi europei non arriverà alcun vero aiuto. “Ci vuole tempo, si sta discutendo”, ammette Draghi.

«Noi e l’Italia abbiamo caratteristiche diverse, al Germania è oggetto dei movimenti secondari, l’Italia è un paese di primo approdo», è l’anodina dichiarazione descrittiva della cancelliera Merkel. Sui ricollocamenti, cioè la presa in carico delle persone che chiedono asilo e la loro gestione successiva, non si fa alcun passo avanti. La sintesi di un alto diplomatico italiano che conosce la politica europea è questa: «L’effetto Draghi si vede in tutti i campi tranne che in quello migranti, su quel fronte non c’è reputazione europea che tenga, nessuno vuole farsi carico di problemi che sono percepiti come soltanto italiani».

La cooperazione si svolge su tutti i fronti del problema migratorio tranne quello di interesse dell’Italia, cioè gli sbarchi via mare. Sia Draghi che Merkel promettono maggior impegno diplomatico ed economico nel Nord Africa, in Libia in particolare, ma anche in Tunisia, e poi nel Sahel, nelle zone cruciali di partenza e di transito del flusso che poi è impossibile fermare sulle coste libiche. Non manca poi l’auspicio di creare canali di ingresso legali che sostituiscano quelli illegali, che è la formula di rito per invocare corridoi umanitari che non sono mai andati oltre una dimensione simbolica.

La partita che interessa alla Germania è soltanto quella del rinnovo dell’accordo tra Unione europea e Turchia che ferma il flusso di migranti che arrivano via terra, dalla Siria e non solo, e dunque possono raggiungere la Germania (mentre quelli che sbarcano in Italia faticano molto di più). «La Turchia ha tutti i diritti di essere aiutata perché gestisce 3 milioni di rifugiati, siamo tutti d’accordo», scandisce la cancelliera Merkel, Draghi la supporta.

L’accordo del 2016 fortemente voluto dalla Germania è in scadenza, la Turchia ha incassato oltre 7 miliardi di euro per fare da tappo e fermare all’origine la rotta balcanica che è un grosso problema politico per molti paesi, a cominciare dalla Germania. In teoria la Turchia avrebbe anche dovuto ospitare migranti che, arrivati nell’Ue senza avere i requisiti per l’asilo, venivano rimpatriati nel paese, ma in cinque anni appena 2140 persone hanno seguito il flusso inverso della migrazione, dalla Grecia alla Turchia. In compenso il numero di accessi è crollato: dalle rotte turche arrivavano 861.360 persone nel 2015, dopo l’accordo sono scese a 36.310. C’è qualche aumento soltanto quando, come a marzo 2020, Ankara incoraggia i migranti a partire per tenere sotto pressione Bruxelles.

Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas chiede un aggiornamento del patto, Angela Merkel presenta come un’ovvietà il rinnovo, non obietta il premier Draghi, che pure aveva dato del “dittatore” a Recep Tayyp Erdogan quando aveva umiliato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (sedia negata, in quanto donna in un paese islamico, nella visita ufficiale di aprile ad Ankara).

La visita a Berlino, comunque, è costruita per sottolineare le affinità tra Italia e Germania molto più che per far emergere le differenze. Draghi non ha bisogno di costruirsi una reputazione europea, come di solito capita ai premier italiani freschi di nomina, ma deve persuadere anche i più scettici (come il presidente del parlamento tedesco Wolfgang Schauble) che sarà in grado di far rispettare all’Italia gli impegni presi in cambio degli oltre 200 miliardi del Recovery Plan. Draghi promette quindi le riforme, consapevole che la formula “riforme strutturali” è logora le rilancia come “riforme di sistema” e poi professa grande sintonia con la Germania anche sulla politica internazionale, la collocazione atlantica, i rapporti con gli Stati Uniti e la Cina.

Per la verità le posizioni di Germania e Italia verso Cina e Stati Uniti sono parecchio diverse. Draghi si è schierato senza esitare sulle posizioni dell’amministrazione Biden, che considera Pechino un rivale strategico e l’adesione dell’Italia al progetto della Nuova via della seta nel 2019 un errore. La Germania, invece, ha approfittato del periodo di transizione tra Donald Trump e Joe Biden a fine 2020 per accelerare la firma di un accordo commerciale tra Ue e Cina che Pechino considera un grande successo diplomatico, ancor prima che economico. E ancora ieri sul Financial Times Armin Laschet, al momento il successore designato di Angela Merkel per i cristianodemocratici alle elezioni di settembre, denunciava «i rischi di una nuova guerra fredda con la Cina», che è certo un rivale strategico ma anche «un partner, soprattutto in battaglie difficili come quella sul clima».

Poiché Draghi conosce perfettamente questa diversità di vedute tra Berlino e Washington, la sua proclamazione di sintonia era un chiaro messaggio alla élite tedesca ostile all’Italia sulla politica fiscale e incline ai rapporti con la Cina per esigenze di business: avete bisogno dell’Italia come cuscinetto per evitare l’ostilità dell’America di Biden, quindi non è nel vostro interesse indebolirla con attacchi preventivi su Recovery Plan e debito. Questo credito, però, si può riscuotere soltanto sul campo della politica economica, non su quello dei migranti. Per sancire la sintonia strategica non c’è niente di meglio che trovare un nemico comune: alla domanda di un giornalista, Draghi risponde che certo, anche lui supporterà la richiesta di spostare la finale degli europei dalla Londra minacciata dalla variante Delta a un paese più sicuro. E più europeo.

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