La soffiata arriva da una “fonte confidenziale” e provoca il panico. Perché allude a «movimenti sospetti di denaro» in entrata e in uscita da una delle società dell’imprenditore più famoso dell’isola, uno che è sempre in prima fila alle inaugurazioni degli anni giudiziari, amico di procuratori e ministri dell’Interno, uno che appena due mesi prima è stato ricevuto con tutti gli onori al Quirinale e nominato Cavaliere del Lavoro – il più giovane Cavaliere d’Italia! – da Giorgio Napolitano. Poche righe «sul noto Antonello Montante», vaghe e insieme insidiose, bastano a sconvolgere la sonnacchiosa estate di un reparto poliziesco di stanza in Sicilia.

È solo un appunto ma la rogna è grossa, un passo falso e l’inchiesta può scatenare l’inferno in terra con quel nome e con quelle accuse. È la fine di luglio del 2008 e il colonnello della Guardia di finanza Domenico Bonavita, capo centro della Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta, si gira e si rigira un pezzo di carta fra le mani e dopo un po’ chiama nel suo ufficio il maresciallo capo dei carabinieri Giuseppe Francolino.

Il via alle indagini

Lo informa della soffiata, lo invita a indagare «con estrema riservatezza su eventuali legami con la criminalità organizzata» di Calogero Antonio Montante detto Antonello, la star dell’Antimafia italiana, presidente di Sicindustria, l’uomo che con il suo “gemello” Ivan Lo Bello vuole liberare la Sicilia dai boss. Il maresciallo Francolino inizia la sua indagine. Ma non ne conoscerà mai l’esito perché, accuratamente nascosta, resterà per quasi dieci anni nei cassetti della Dia. Insabbiata. I magistrati di Caltanissetta l’hanno ripescata dagli archivi alla vigilia della cattura di Montante per associazione a delinquere, corruzione, intercettazioni illegali, dossieraggio.

Così scopriranno che, già dieci anni prima, si sarebbe potuto tracciare il suo profilo criminale e le sue pericolose frequentazioni, forse svelare anche l’origine della sua fortuna. Qualcuno però gli ha cancellato il passato, la vita precedente che faceva odore di mafia. Ogni dettaglio di questa operazione di “pulizia” è nel fascicolo del processo contro l’ex vicepresidente di Confindustria: interrogatori, atti, informative.

Torniamo all’estate del 2008. Il maresciallo Francolino, è agosto, parte con i suoi accertamenti. Consulta dati all’Anagrafe tributaria, fa controlli discreti alla Camera di commercio di Caltanissetta dove il presidente è proprio Montante, contatta il comandante della stazione dei carabinieri di Serradilfalco, il paese a pochi chilometri di Caltanissetta dove il neo Cavaliere è cresciuto e dove ancora abita in una villa che una volta era un monastero di suore. Vuole verificare la fondatezza di una notizia: e cioè se, Calogero Montante, sia veramente legato da antico legame con la “famiglia” Arnone, boss originari di Mussomeli e scesi dopo la Seconda guerra mondiale a Serradilfalco. Il capo era Paolino Arnone, suicida in carcere nel 1992, più volte citato negli atti della prima commissione parlamentare antimafia del ’72, consigliori di Giuseppe Madonia, il numero 2 della Cupola, quello che veniva appena dietro Totò Riina.

Dalla stazione dei carabinieri di Serradifalco forniscono al maresciallo Francolino il certificato di matrimonio di Antonello, nozze celebrate il 23 dicembre del 1980 nella chiesa san Biagio di Caltanissetta. La sposa è Antonella Ristagno, primo testimone Paolino Arnone, secondo testimone suo figlio Vincenzo (che sarà capomafia di Serradifalco alla morte del padre), altri due testimoni sono Antonino Lanzalaco e Rosalia Lanzalaco che agli Arnone vengono parenti.

I conti

Giuseppe Francolino raccoglie ogni dettaglio sugli intrecci fra Montante e la cosca mafiosa e poi esamina i conti della società “Alechia”, iniziali dei nomi delle due figlie di Montante, Alessandra e Chiara. Racconterà il maresciallo un decennio dopo, davanti al pubblico ministero Stefano Luciani: «Analizzai i bilanci della società e mi balzò agli occhi che il flusso di denaro che girava intorno non avesse, a mio parere, un riscontro plausibile dalla documentazione contabile».

Così Francolino redige il suo rapporto e il 20 settembre del 2008 lo consegna al capocentro della Dia, il colonnello Bonavita. L’ufficiale non è convinto e, con una penna rossa, suggerisce al maresciallo alcune correzioni da eseguire. Francolino modifica il rapporto secondo le indicazioni del superiore, lo stampa, passa dall’ufficio protocollo del centro Dia per registrarlo in partenza per la procura della Repubblica (con il numero 2761 del 24 settembre 2008) e lo porta di nuovo alla firma del colonnello. Il rapporto, anche questa volta, non viene inviato al palazzo di Giustizia. Il capocentro della Dia vuole altre correzioni ancora, il maresciallo ricomincia daccapo, aggiusta, ne stampa un’altra copia, ripassa dall’ufficio protocollo e per la seconda volta torna dal colonnello. Bonavita tentenna, dice che non può mandare in procura quel documento e comunica a Francolino che, “prima”, preferirebbe dirottarlo al comando locale della finanza per accertamenti fiscali e tributari. Quello di Bonavita non è un invito, è un ordine. Il maresciallo si irrigidisce, sente puzza di bruciato e annota di suo pugno sull’informativa: «Non trasmessa all’autorità giudiziaria per disposizione del Signor Capo Centro in funzione di accordi con la finanza».

La stessa nota è registrata anche su un file, che finisce nello schedario informatico della Dia. Il maresciallo lascia tutto scritto. Il 24 ottobre 2008, un mese dopo, Francolino stende un’altra segnalazione ricostruendo la vicenda Montante fin dall’inizio. E conserva pure quella. Testimonierà: «Da ciò che avevo capito bisognava informare la magistratura per verificare l’origine di quei flussi di denaro... se provenivano dalla criminalità organizzata o se si trattava di fondi occulti, ma non potevo certo io rivolgermi alla procura, l’avrebbe dovuto fare il mio capo».

La sospensione

L’indagine invece viene dirottata alla finanza e, per un anno, non se ne sa nulla. Fino a quando, il 6 novembre 2009, la finanza comunica alla Dia «di non avere rilevato irregolarità nelle operazioni negoziali condotte dal Montante». Il maresciallo torna alla carica con il suo capo. In pratica gli dice che una cosa sono le indagini fiscali – di competenza della finanza – e altra cosa le indagini di mafia – di competenza della Dia – e che quel rapporto sarebbe dovuto finire sulla scrivania del procuratore della Repubblica. Ma il colonnello Bonavita è fermo sulla sua decisione: non ci sono elementi sufficienti per informare la magistratura.

Questa è la ricostruzione ricavata dalle carte processuali, per capire meglio i contorni della storia è necessario però spiegare chi sono i protagonisti, i comandanti di Dia e finanza a Caltanissetta in quegli anni. Il colonnello Bonavita, che è non è indagato, è un buon amico dell’imprenditore Massimo Romano, il “re dei supermercati”, socio di Montante e imputato nel processo con rito ordinario che si sta celebrando contro i complici di Antonello.

L’ufficiale che regge il comando della finanza che non riscontra irregolarità nelle società di Montante è il colonnello Gianfranco Ardizzone, condannato a tre anni nel processo Montante. Il suo successore alla Dia di Caltanissetta sarà il colonnello Gaetano Scillia (anche lui finanziere) accusato di investigare – su ordine del direttore centrale Arturo De Felice «e interloquendo personalmente con il Montante» – su una mezza dozzina di cittadini colpevoli soltanto di non spalleggiare l’imprenditore di Serradifalco nelle sue scorrerie.

In quell’estate del 2008 Calogero Montante è già ben “coperto” dagli apparati di polizia giudiziaria e, appena dopo quell’indagine scomparsa, spiccherà il volo verso Roma. Da presidente di Sicindustria a vicepresidente nazionale di Confindustria con delega alla Legalità accanto a Emma Mercegaglia e poi a Giorgio Squinzi e a Vincenzo Boccia. Un’irresistibile scalata nonostante i sospetti, nonostante le contiguità mafiose. Il seguito della vicenda ripropone sempre lo stesso copione.

Nel giugno del 2014 viene indagato per concorso esterno, nel gennaio del 2015 il presidente del Consiglio Matteo Renzi – su proposta del ministro dell’Interno Angelino Alfano – lo nomina nel Consiglio direttivo dell’Agenzia dei beni confiscati alla criminalità organizzata.

Su 60 milioni di italiani scelgono lui. Una straordinaria coincidenza, il compare d’anello di due capimafia che entra nella stanza dei bottoni dove si decide il destino delle ricchezze di mafia. È il delitto perfetto.

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