Qualche giorno fa il senatore a vita Mario Monti, nel corso di una trasmissione televisiva, ha parlato della comunicazione relativa al Covid. Secondo il senatore, servirebbero «modalità meno democratiche nella somministrazione dell'informazione» - decise dal governo d’intesa con le autorità scientifico-sanitarie - poiché «in una situazione di guerra si devono accettare delle limitazioni alle libertà». Il giorno dopo, l’ex presidente del Consiglio ha riconosciuto di aver usato «un’espressione infelice e impropria (sulle modalità meno democratiche)», ribadendo che comunque «il tema esiste». L’accaduto richiede qualche considerazione in punto di diritto, e non solo.

La libertà di espressione

La vicenda va inquadrata nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». La Costituzione valorizza la rilevanza della libertà di stampa, nell’ambito di quella di espressione, tutelandola rispetto a ingerenze dei pubblici poteri. Del resto, la libertà di espressione è «la pietra angolare dell’ordinamento democratico», come afferma la Corte costituzionale (sentenza n. 84/1969), e il livello di democraticità di uno Stato è dato anche dalla quantità di informazioni che circolano al suo interno. Ma secondo Monti tale libertà potrebbe essere limitata, così come molte altre - pure sancite costituzionalmente - sono state compresse a causa dell’emergenza sanitaria. Quest’affermazione lascia perplessi. Innanzitutto, il fatto che molti diritti siano stati oggetto di restrizioni - peraltro, talora senza la necessaria trasparenza di dati a supporto della proporzionalità delle restrizioni stesse - non è un buon motivo per sacrificarne anche altri. Inoltre, sarebbe aberrante che il potere – da chiunque sia rappresentato e in qualunque sua articolazione – decida quale sia l’informazione “buona e giusta”, con tutti i rischi di strumentalizzazione politica del caso, per non dire di peggio.

Lo stato di guerra

A parere di Monti l’emergenza sanitaria, assimilabile a uno stato di guerra, renderebbe necessario intervenire sull’informazione, se pure con modalità e per fini diversi rispetto a tale stato. Dal parallelismo tra le due situazioni il professore fa scaturire conseguenze di diritto, cioè la limitazione di un diritto, quello di parola. Ma è proprio sul piano del diritto che il suddetto parallelismo non regge. Ciò si evince con chiarezza dalla pronuncia con cui la Corte costituzionale (sentenza n. 198/2021) ha affermato che la normativa emergenziale emanata sin dall’inizio della pandemia non ha conferito al Presidente del Consiglio pro tempore poteri straordinari da stato di guerra, da esercitare mediante i noti Dpcm. Insomma, la pandemia non è una guerra, quindi le affermazioni del senatore Monti sono prive di fondamento. Peraltro, la disinvoltura nell’uso di questa metafora infondata, tanto più da parte di una persona seria e credibile come Monti, potrebbe indurre confusione in chi ascolta e – paradossalmente - potrebbe addirittura essere considerata “disinformazione” da chi fosse preposto a esercitare una qualche forma di controllo. Tale paradosso aiuta a capire quanto certe proposte siano rischiose anche per chi auspica che vengano accolte. In ogni caso, in un ordinamento democratico il contenuto della libertà di espressione non può essere ridotto a seconda delle circostanze, salvo non sia in concreto istigazione a commettere un reato.

La buona informazione

Prima di accennare a metodi “non democratici” o altre forme di limitazione dei media per combattere la disinformazione, serve capire l’origine del problema. Teorie antiscientifiche e irrazionali trovano modo di affermarsi là dove manchi una efficace e chiara comunicazione istituzionale, resa in modo autorevole e basata su dati e decisioni trasparenti. La “cattiva” informazione, infatti, si colloca negli spazi lasciati vuoti da chi avrebbe il compito istituzionale di rendere una “buona” informazione.

Un’utile indicazione in questo senso è nella lectio magistralis di Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica 2021, il 22 novembre scorso. «Abbiamo il dovere di promuovere una cultura basata sui fatti e impedire che si diffonda una pseudoscienza che possa indurre a scelte sbagliate», ha detto Parisi, aggiungendo che «bisogna anche riuscire a comunicare, a spiegare non solo i risultati ma anche la metodologia seguita, per poter essere convincenti in maniera duratura. (…) Basta guardarsi intorno per capire che quello che si fa non basta. Bisogna fare di più, molto di più, e se non lo faremo, non potremo sfuggire alle nostre responsabilità». Sulla stessa linea si è pronunciato il Consiglio di Stato, qualche settimana fa, in una sentenza in tema di obbligo vaccinale per gli operatori sanitari. «La luce della trasparenza», tanto nelle acquisizioni scientifiche degli esperti quanto nei processi decisionali del legislatore, «feconda il seme della conoscenza tra i cittadini», così «stroncando il diffondersi di pseudoconoscenze o, addirittura, di credenze irrazionali», e «contribuisce al rafforzamento, in modo pieno e maturo, dei diritti fondamentali nel loro esercizio ponderato e responsabile».

Purtroppo, questo tipo di comunicazione chiara e trasparente è mancata sin dall’inizio della pandemia. Essa avrebbe favorito la consapevole formazione delle opinioni nelle persone, concorrendo ad acuirne le capacità di discernimento. Dunque, se è giusto stigmatizzare la disinformazione, andrebbero anche rilevate le responsabilità di coloro i quali avrebbero dovuto arginarla, con un’informazione istituzionale, qualificata e professionale, distinguibile da ogni altra fonte non verificata e inidonea. La fiducia nei decisori è lo strumento più idoneo a indurre le persone a compiere le scelte più utili per tutti: in una pandemia, ciò che convince a vaccinarsi è essenziale come il vaccino stesso.

© Riproduzione riservata