La famiglia del 26enne originario del Mali, ucciso alla stazione di Verona il 20 ottobre 2024, ha nominato Fabio Anselmo come avvocato, secondo cui ci sono «motivi di dubbio che meritano di essere approfonditi». Il pm ha dato parere negativo all’accesso agli atti perché quei filmati che mostrerebbero cosa è successo avrebbero potuto essere dati alla stampa
È una storia che ne contiene molte, quella di Moussa Diarra, il ventiseienne ucciso alla stazione di Verona Porta Nuova all’alba del 20 ottobre 2024. Di certo, per ora, ci sono quei tre fori sul suo giubbotto: uno vicino al polso, uno sul cappuccio e uno all’altezza del cuore. Sono i proiettili sparati dall’agente della Polizia ferroviaria.
«Con tutto il rispetto, non ci mancherà», ha scritto poco dopo la notizia della morte di Moussa il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. Con il corpo di Moussa ancora caldo, la procura e la questura di Verona vergano un comunicato stampa che ha già il sapore della sentenza: aggressione con coltello, danneggiamenti pregressi, reazione armata inevitabile.
Il giorno dopo, sul quotidiano veronese L’Arena, Moussa viene descritto come «rifugiato in fuga da un paese in guerra», poi «diventato facile manovale nell’ambito dello spaccio». «Tutti parlano del giovane che sembrava indemoniato, non era contenibile», scrive lo stesso giorno Il Giornale. Nero, spacciatore, drogato, armato, con un poliziotto che non poteva fare altro che difendersi e che, per di più, ha tentato di salvarlo. Il caso aperto è già pronto per essere chiuso.
«Fiducia incondizionata»
Poi tutto cambia. L’avvocato Fabio Anselmo, già difensore dei familiari di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, nota come «nel secondo comunicato della procura si fa riferimento a notizie scorrette e si dice che il fatto non è inquadrato in un problema di sicurezza nei pressi della stazione».
Il drogato spacciatore «era in una situazione di confusione e agitazione, disagio fisico», «spariscono i termini violenza e danneggiamento», osserva Anselmo, mentre la procura dichiara «fiducia incondizionata nella questura per le indagini». «Perché dirlo pubblicamente?», si chiede l’avvocato, che da qualche giorno ha deciso di assumere la difesa di Diarra.
«Il ruolo di un pubblico ministero e la fiducia incondizionata è un ossimoro, perché deve verificare tutto e tutti», spiega a Domani. «Questi comunicati trasmettono un’ansia che un po’ mi imbarazza». L’avvocato Anselmo non vuole puntare il dito contro nessuno, ma ricorda come la Cedu imporrebbe di affidare le indagini ad altri corpi rispetto a quelli degli indagati.
«Nella mia carriera ho trovato professionisti positivi e imparziali, ma mi sono imbattuto anche in veri e propri depistaggi per spirito di corpo. Nei casi Aldrovandi e Cucchi, nuove inchieste autonome sono finite in condanne e processi».
Non c’è traccia, per ora, nemmeno delle immagini delle telecamere che avrebbero “cristallizzato” gli eventi. «Quando le mie colleghe hanno chiesto le immagini, il pm ha dato parere negativo all’accesso agli atti perché avrebbero potuto essere date alla stampa. Ma il segreto istruttorio dovrebbe garantire l’efficacia delle indagini, garantisce anche l’indagato, anche perché la vittima qui non c’è più».
Gli amici di Moussa bisbigliano un sospetto. «Se le telecamere mostrassero chiaramente che si tratta di legittima difesa del poliziotto, quelle immagini sarebbero state rese pubbliche fin da subito».
Le ferite
Di sicuro, oltre alle pallottole e al corpo morto, ci sono le ferite di Moussa, quelle che non hanno sanguinato e che si è portato addosso prima di morire. Nato a Kita, in Mali, «a Moussa piaceva molto la scuola e nostro padre voleva che proseguisse gli studi, ma purtroppo mancavano i soldi per pagare. Ricordo mio fratello insistere tanto per restare a scuola, ma alla fine il direttore l’ha mandato via», racconta Djemagan Diarra, che da cinque mesi è a Verona per chiedere giustizia e «per riportare a casa il corpo di mio fratello».
Nel 2014 Moussa ha viaggiato verso la Libia, che l’Italia ha trasformato nell’imbuto violento del Mediterraneo. Due anni di violenze e poi la partenza per l’Italia. Nonostante il riconoscimento dello status di rifugiato, i decreti sicurezza di Salvini nel 2018 lo hanno relegato nel Cas Costagrande di Verona, un limbo di instabilità. «A Verona lavorava tanto e mandava regolarmente i soldi a nostra madre», racconta il fratello. «È stato lui a prendersene sempre cura, a occuparsi di tutte le cose necessarie e di tutte le cure mediche per nostra madre, che purtroppo è paralizzata da un lato del corpo».
Oltre alla Libia, all’incertezza italiana e alla famiglia lontana, Moussa qualche mese fa ha dovuto affrontare anche la morte del padre. Forse è stato lì che ha cominciato a sprofondare. «Lo sentivo molto sofferente – dice Djemagan –. In quel periodo non lavorava e così è stato costretto a farsi prestare i soldi da alcuni amici per pagare il funerale». Fino a quel 20 ottobre.
«Sono qui da cinque mesi e mio fratello è dentro a un congelatore. I medici hanno confermato che non faceva uso di droghe. Nessun documento parla di lui come spacciatore. Chiedo che la giustizia faccia il suo lavoro, io non posso fare molto di più di quello che sto facendo. Mio fratello Moussa era un africano nero. E la sua pelle non è niente su questa terra, non vale nulla su questa terra. Come ci sono bianchi cattivi ci sono neri cattivi. A me hanno aiutato bianchi e neri, sostenendomi fisicamente, mentalmente, con la loro presenza e con la loro forza. Io non posso fare altro che fidarmi della giustizia».
L’avvocato Anselmo ricorda come all’inizio «Sandri fosse morto per un colpo sparato in aria, Aldrovandi per overdose e Cucchi per morte naturale». «Non ho la verità in tasca – dice – ma ci sono motivi di dubbio che meritano di essere approfonditi».
Di certo, per ora, ci sono quei tre fori sul suo giubbotto, le immagini che nessuno ha ancora visto e l’odore di razzismo che si annusa tutto intorno.
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