Cocaina, e poi Coca-Cola. In quantità assurde. Poi vino, fernet, ansiolitici. Bisteccone di chorizo alte tre dita. Il finale sempre in un ospedale. Voglio uscire di qui! Dove sono le mie bambine? Pago ed esco di qui, avete capito? Sono Maradona io!

E poi ancora carne il giorno dopo, fino a quando uno stomaco già ridotto del 30 per cento per una operazione arrivava a scoppiare. Ma si può rischiare di andare al creatore per cinque litri di Coca-Cola trangugiati in poche ore? Me lo disse sconsolato una volta un suo medico, in uno dei vari bivacchi fuori dalle cliniche che mi è capitato di vivere come reporter dal Sudamerica. Sì purtroppo, per quella e tutte le altre volte che ci ha provato. Fino a riuscirci.

Ora che Diego Armando Maradona è morto, ieri mattina a Buenos Aires per arresto cardiaco, almeno non in uno dei cento ospedali che ha frequentato negli ultimi anni, tutti pensiamo che un giorno avremmo ricevuto la notizia senza stupirci più di tanto. E invece no.

Appena il Clarin di Buenos Aires ha lanciato il primo flash sul suo sito, e mentre tutto il resto del mondo ha aspettato qualche minuto per crederci, i social erano già stati inondati di faccine in lacrime e noooo disperati. Perché se è vero che tanti l’hanno amato in campo quanti lo hanno detestato fuori, l’imperatore dei cattivi maestri, la quintessenza di come si butta via una vita fortunata, ieri si sono paralizzati tutti. Onore a un uomo che nella vita ha forse più sofferto che goduto. Aveva compiuto sessant’anni da meno di un mese e stava sempre peggio.

Maradona e i suoi mali

Diego e le mille discese all’inferno seguite da ritorni all’aria aperta sempre più precari. Sono 25 anni che andava avanti così: c’è più gente al mondo che ha ascoltato e letto notizie dei suoi pasticci che assistito ai suoi gol. E non è giusto.

Quali mali? Male di vivere, troppo facile. Si era sempre rialzato, fino a ieri, sorprendendo legioni di medici. «C’è Diego e c’è Maradona. Conosci uno e fai fatica a credere che l’altro sia la stessa persona», dice l’amico eterno e preparatore atletico Fernando Signorini nel bel documentario Netflix su Maradona negli anni napoletani.

A proposito, ci sono in giro più documentari e film su Maradona che trofei nella sua bacheca. Anche qui, troppo facile: una vita che è ispirazione per chiunque ci voglia provare. È curioso che mentre il dibattito se Maradona sia stato o meno il più grande calciatore della storia non finisce e non finirà mai, quello sulla sua vita “dopo” e “oltre” è sempre liquidato in due parole e uno scossone del capo.

Eh, come Garrincha, Best, Gascoigne, Adriano... quelli che non ce l’hanno fatta ad affrontare la vita reale. Finiti male. Fine del dibattito.

Solo che il tumulo di Garrincha, morto solo, povero e alcolizzato, sembra quello di un indigente a Magé, periferia di Rio de Janeiro, e anzi, pare che abbiano portato via i resti tempo fa e nessuno se n'è più occupato.

Quando arrivò la notizia della sua scomparsa non se ne sapeva nulla da anni, o soltanto che “era finito male, poveretto”. Nella nostra era invece il lento funerale di Diego Armando è stato celebrato in pubblico, in mondovisione e con tutte le piattaforme via via disponibili.

Dall’urlo in camera al gol contro la Grecia, mondiali 1994, che per la sua violenza fece scattare l’antidoping, la squalifica e la fine definitiva della sua carriera; al terribile video di pochi mesi fa, “viralizzato”, dove Maradona balla ubriaco fradicio e scomposto con la fidanzata e al telefonino mostra invece il culone.

Chi proprio vuole può googlare, ma da oggi è ancora più brutto da vedere. C’è con lui l’ultima fidanzata, quella del finale tragico, mentre tutti ricordano l’eterna compagna Claudia, il matrimonio leggendario a Buenos Aires mentre era idolo a Napoli, le due figlie ufficiali Dalma e Gianinna, e poi gli altri riconosciuti a poco a poco. A partire da Diego Armando il napoletano, nato dalla relazione con la parrucchiera della moglie, Cristina Sinagra, e riconosciuto solo da grande.

Con una vita così è proprio questo il rischio di dover celebrare la scomparsa del più grande calciatore del suo tempo: parlare così poco di calcio. Ma va fatto, ovviamente. Prima di Maradona c’era stato Pelé - come diceva la canzoncina inventata a Napoli quando lui nemmeno era arrivato - poi ci sono stati Leo Messi e se vogliamo Cristiano Ronaldo.

Tre ere diverse del calcio. Maradona ha una carriera vera concentrata in meno di dieci anni, quasi tutti passati a Napoli. Qui ha vinto due scudetti e una Coppa Uefa. Con l’Argentina un Mondiale, in Messico nel 1986, quello del gol con la mano e lo slalom di mezza Inghilterra. La sua bacheca, vista così, non gli permetterebbe nemmeno di entrare nei primi dieci calciatori della storia.

Ma il calcio per fortuna non è solo numeri e statistiche. Maradona non ha mai giocato nell’élite del calcio, né di club né in nazionale. Anzi, se vogliamo è stato particolarmente sfortunato e spesso circondato da giocatori modesti. Quello che ha vinto lo ha vinto praticamente da solo.

L’invenzione geniale

In campo e negli spogliatoi è sempre stato impeccabile con i compagni. Tra le milioni di persone che parlano male di lui non ce n’è una con cui ha giocato, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Ma lo sguardo sconsolato verso il compagno che ha appena buttato via un gol, o non ha capito una sua apertura geniale, l’abbiamo visto molte volte. Poteva andargli meglio, insomma. Quello in cui Maradona ha giocato non era più il calcio danzato e contemplativo dell'epoca di Pelé, e nemmeno quello da schemi rigidi e computerizzato di oggi.

Ma è stato il più duro per un marziano come lui. Perché la marcatura a uomo non era ancora tramontata e lo menavano tantissimo, dal primo all’ultimo minuto, con uno o due avversari incollati per 90 minuti, mentre non c’erano arbitraggi collegiali e Var a rendere giustizia e protezione ai più forti.

Né ha mai giocato in squadre protette dal blasone. Per questo quando toccò a lui commettere la scorrettezza massima (a calcio non si gioca con le mani, lo sappiamo dall'asilo) non gli restò che ricorrere all’idea della compensazione divina, ed ecco l’invenzione geniale della Mano de Dios.

Quel fotogramma ha diviso il mondo. Tra chi sostiene che ogni tanto la giustizia dall’alto ci vuole, superando quella degli uomini; e chi invece no, il gioco è fair play, le regole non si interpretano e giù, quando serve, la maledizione razzista al morphing tra un argentino e un napoletano... Maradona è andato talmente oltre le sue gesta sul campo che i momenti più visti e rivisti della sua vita nelle prossime ore saranno altri, c’è da scommetterci.

E lasciamo da parte di nuovo la cronaca nera. L’arrivo al San Paolo di Napoli, quando lo stadio si riempì solo per vederlo palleggiare a fianco di Corrado Ferlaino, che in quell’occasione si meritò lo striscione più grande della curva (“Grazie!”).

I salti e i bagni di champagne nello spogliatoio dopo la vittoria del primo scudetto. Dove lui stesso intona l’altra musichetta della sua era (“oh mamma mamma, sai perché mi batte il corazon!”). Quel palleggio riscaldamento nella semifinale di Uefa contro il Bayern, al suono di Life is Life. Anche cose meno educate, quando propose a Pelé di palleggiare con un limone per vedere se “l’altro” era capace.

E l’identificazione con i suoi luoghi. È stato detto e ridetto che Maradona non poteva che essere argentino, così come “non poteva che giocare a Napoli”. Comunque la si voglia leggere, quest’appartenenza alla periferia del mondo l’ha sentita e rivendicata in ogni gesto.

Come se nelle vittorie ci fosse soprattutto la rivalsa, e nei momenti bui – con o senza pallone – ci fosse il destino di chi arriva dal fondo e ogni tanto è costretto a tornarci. Avremmo voluto vedere Diego anziano e saggio, uguale a suo padre, con una pancia enorme e tanti ricordi degli anni di baldoria. Ma purtroppo era scritto da tempo che non sarebbe stato possibile.

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