Dopo cinque ore passate dietro una cattedra a Firenze, Pietro si è infilato in auto per divorare l'autostrada a centotrenta all'ora fino a Napoli. La meta finale è piazza Garibaldi: i suoi amici, altri napoletani in arrivo da vari nord e sud italiani, si erano promessi d'arrivare lì in tempo per il fischio d'inizio. Ma quando si incontrano è già tardi. Il racconto di un delirio collettivo
Napoli – Dopo cinque ore passate dietro una cattedra a Firenze, Pietro si è infilato in auto per divorare l'autostrada a centotrenta all'ora fino a Napoli. La meta finale è piazza Garibaldi: i suoi amici, altri napoletani in arrivo da vari nord e sud italiani, si erano promessi d'arrivare lì in tempo per il fischio d'inizio. Ma quando si incontrano è già tardi. La squadra è già schierata, anche la città è già in campo. La metro è zeppa e la partita sta iniziando: «Andiamo a piedi».
Si tuffano nei fiumi di ragazzi e ragazze che risalgono le strade verso il centro storico. Sbucano da dedali di vicoli nel giorno in cui tutti possono parlarsi e abbracciarsi senza nemmeno conoscersi, senza essersi mai visti prima. A Forcella, agli angoli di certe vie, qualcuno a mani giunte e sguardo rivolto al cielo, sembra pregare: forse dio, forse Diego, per non darla vinta all'Inter che ha trattenuto la squadra per mesi in un testa a testa a punti.
«Facciamo la fine dei sorci». Pina, 45 anni, che abita a Napoli da venti, dice che piazza Plebiscito non l'ha mai vista così piena. È un alveare blu, una massa diventata un corpo solo per gli undici sul campo verde. Si accendono i primi fumogeni rossi. Gli schermi piazzati in ogni bar trasmettono la partita per le strade, ma in differita e le urla sembrano, da un quartiere all'altro, un inno che procede a cappella.
Le strade
Si bestemmia un tiro storto, un'opportunità mancata mentre traverse e parallele continuano ad allagarsi di persone. C'è il medico, accanto al parcheggiatore. Lo studente di medicina accanto all'operaio. Il Vomero stasera si è trasferito a Piazza Dante, la Sanità sa stare accanto a via Caracciolo ed è forse l'unica notte in cui questo può succedere.
Una foresta azzurra di tifosi cresce veloce intorno a ogni schermo piazzato nei locali ma i petardi coprono la telecronaca, le trombe e i tamburi cancellano i commenti nel finale del primo tempo. All'improvviso, urla liberatorie si alzano al cielo al quarantaduesimo. «Ma chi ha segnato?» chiedono dal retro alle prime file. Rispondono in coro scugnizzi ammucchiati in massa sulle sedie di plastica bianca: «McFratm!». In traduzione, da uno storpiato dialetto partenopeo: «Mc, mio fratello».
È così che Napoli ha ribattezzato il suo scozzese e pallido eroe, Scott McTominay. È lui a regalare la prima speranza contro il Cagliari. L'altra, quella definitiva che porterà alla vittoria, è di Lukaku e dopo il gol del belga, la città comincia a festeggiare prima del tempo. Le immagini dello stadio gremito, dove fischiano migliaia di bocche all'unisono, sono gonfie dello stesso desiderio: «Maradona vuole vincere!». Dai balconi calano già enormi striscioni con il numero quattro disegnato nella coppa: è la scaramanzia che cede davanti alla pazza gioia di una città che si sta per scatenare.
La festa
«Finita!». Lo urla un tifoso per primo alla marea umana dietro di lui, un formicaio azzurro che esplode e calpesta le transenne che tentavano di proteggere la fontana del Carciofo, a piazza Trieste e Trento. Diventa subito un podio ciclopico, i ragazzi si arrampicano fin su per far sventolare drappi azzurri che fino a poco prima avevano addosso. È una fontana che sputa fumo e colore, fuoco e lacrime nell'ultima notte di campionato. Diventa un ipnotico piccolo vulcano di anime sudate sul marmo.
Per quel due a zero anche il soffitto di Galleria Umberto diventa blu. Napoli, campione d'Italia, e inizia davvero la notte dei folli. Di gioia, di petardi e danze. È la quarta volta della storia, ma sembra la prima. Chi c'è, si porterà a casa il racconto di un giorno che non finirà col buio.
Martina ha la maglia della nazionale argentina arrotolata sui fianchi. Vale quanto quella dei partenopei nella città del dio Diego. Ai Quartieri spagnoli i padri portano i bambini in pellegrinaggio al murales di Maradona. «Maria, hai capito? Abbiamo vinto». Lo chiede un papà alla figlia che gli sta a cavalcioni sulle spalle. Ha due trecce bionde, lo stesso numero di anni, la bandiera in mano blu e la faccia incredula. I turisti stranieri scattano foto, convinti che mai più passeranno altrove notti luminose così. Quelli italiani fanno i complimenti. «Allora Conte rimane?».
Lorenzo, un romano romanista venuto a urlare insieme agli abitanti di una città che ama quanto la sua, lo chiede a un anziano rimasto con la mani dietro la schiena per tutto il tempo, mentre fuochi d'artificio, fumogeni e fiamme continuano a fare un mezzogiorno nel buio. «Secondo me sì. Rimane, rimane» dice il vecchio che si concede un sorriso.
È il secondo scudetto in tre anni: due anni fa per i tifosi sembrava un miracolo, oggi assomiglia più una conquista, a un sacrificio giusto e ripagato da portenti straordinari. Questo è il numero quattro e chi non è riuscito ad andare a dormire, ad occhi aperti, sogna già il numero cinque.
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