Vinta la battaglia legale degli avvocati di Asgi insieme ad alcuni dei familiari. Così a otto delle ventuno salme ritrovate nello Jonio è stata data un’identità
Il 29 maggio 2025, nel cimitero di Armo, vicino Reggio Calabria, sulle lapidi di otto delle ventuno salme recuperate dopo il naufragio al largo di Roccella Jonica, è stato finalmente inciso un nome. Dovrebbe essere un naturale atto amministrativo invece quel nome è il risultato di una battaglia legale portata avanti dall’Asgi (l’associzione studi giuridici sull’immigrazione) con il progetto Medea, sostenuta dalla determinazione di sopravvissuti, familiari e attivisti. Fra questi, due donne hanno avuto un ruolo decisivo: Rukhsar Kakar, sopravvissuta alla traversata, e Sharifa Baryali, parente di una delle vittime, che hanno firmato la procura per procedere in giudizio contro l’inerzia istituzionale.
Le targhette metalliche sono comparse su otto tumuli, le uniche salme formalmente identificate. Per le restanti tredici, ancora oggi, non esiste alcun elemento pubblico che permetta di risalire all’identità. I dati genetici raccolti, secondo quanto emerso dagli accessi agli atti, non risultano essere stati correttamente trasmessi all’ufficio del Commissario per le persone scomparse.
Un anno fa, nella notte tra il 16 e il 17 giugno 2024 un’imbarcazione partita da Bodrum, in Turchia, con a bordo 67 persone migranti – tra cui 26 minori – naufragò a 120 miglia dalle coste calabresi. I sopravvissuti furono 11. I corpi recuperati 36. Le vittime provenivano principalmente da Afghanistan, Iran, Iraq, Siria e Pakistan.
La comunicazione ufficiale fu da subito lacunosa: le operazioni di soccorso furono avviate solo dopo un mayday lanciato da una nave francese. Le salme vennero sbarcate di notte e trasportate in obitori sparsi in tutta la regione – Locri, Polistena, Siderno, Soverato, Reggio Calabria, Crotone – ostacolando ogni documentazione. Ai giornalisti fu impedito l’accesso. I familiari, giunti da diversi Paesi, furono lasciati a orientarsi da soli in un labirinto di uffici e silenzi.
Oscurato
A differenza di quanto avvenuto dopo il naufragio di Cutro, dove il Palamilone fu trasformato in spazio pubblico per l’elaborazione del lutto e l’identificazione dei corpi, a Roccella Jonica ogni elemento di visibilità fu evitato. Non ci fu una sala comune per i sopravvissuti. Non ci fu un luogo di incontro per i familiari. I corpi furono distribuiti e separati. Gli spostamenti dei parenti tra porti, obitori, uffici comunali e ospedali si svolsero senza alcun coordinamento. Un metodo, più che un disservizio.
Il 22 giugno si tenne l’unico evento pubblico: una marcia silenziosa, con candele, promossa dalla Chiesa locale. Lì, per la prima e unica volta, Rukhsar Kakar poté unirsi ai volontari della Croce Rossa e ad altri familiari nel commemorare i morti. Poi solo silenzio.
«Abbiamo iniziato con una richiesta FOIA e siamo arrivati alla diffida formale», racconta l’avvocata Lidia Vicchio, che ha seguito il caso fin dall’inizio. «Abbiamo scritto alla Prefettura, alla polizia scientifica, alla Procura e al Commissario straordinario. Nessuna di queste autorità ci ha dato informazioni complete o coerenti. Il Commissario ha dichiarato di non possedere dati sui corpi recuperati. E al cimitero abbiamo trovato solo paletti di legno con su scritto ‘”Salma 12”, “Salma 20”».
La normativa italiana – e le convenzioni internazionali – impongono la raccolta sistematica di impronte digitali, fotografie e Dna per ogni corpo non identificato. I campioni genetici sono stati prelevati, ma non risulta alcuna procedura per permettere ai familiari nei Paesi d’origine di effettuare la comparazione, come invece previsto dai protocolli della Croce Rossa internazionale.
Una battaglia vinta
A novembre 2024, dopo mesi di richieste rimaste senza esito, Asgi e i legali inviarono una diffida formale al Comune di Reggio Calabria, chiedendo l’apposizione dei nomi almeno per le salme identificate. Nella diffida, la firma di Rukhsar e Sharifa diede forza alla richiesta: due nomi vivi per difendere il diritto dei morti. Il Comune rispose soltanto il 29 maggio 2025, comunicando l’avvenuta collocazione delle targhette. Nessuna comunicazione è mai arrivata invece dalla Prefettura. Anzi, in un incontro pubblico ha quasi rivendicato di avere dato il nome a quelle salme.
Nel frattempo, la famiglia di Akbari Sobhanullah, 29 anni, l’unico identificato fin dai primi giorni, continuava a chiedere supporto per il rimpatrio della salma. «Vogliamo riportarlo a casa, dove lo aspettano le persone che lo amano», hanno scritto in una dichiarazione inviata alle autorità italiane.
Dall’estero, sono giunti anche messaggi di solidarietà. Come quello di Shahid Khan, pakistano, che ha perso suo fratello Rahim Ullah nel naufragio di Cutro: “Conosco il dolore delle famiglie. È un vuoto insopportabile. Il governo italiano deve fare di più per permettere ai parenti di sapere, di identificare, di piangere”.
Il diritto al nome non è un atto simbolico. È il fondamento giuridico per ogni altra forma di giustizia, per la restituzione delle salme, per i riti religiosi, per i risarcimenti. Diritto riconosciuto dalla Convenzione Onu contro le sparizioni forzate, dalle linee guida della Commissione europea e dal codice civile italiano. Oggi, grazie alla tenacia di sopravvissuti, familiari e legali, otto persone sepolte ad Armo hanno riavuto un nome. Le altre tredici no. L’impegno, assicurano da Asgi, non si ferma. Finché anche l’ultima tomba numerata non avrà un nome. E finché l’ultima omissione non sarà resa visibile.
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