La ‘ndrangheta a Roma. Famiglie storiche del crimine organizzato calabrese che in vent’anni hanno eretto un potere quasi invisibile agli occhi distratti dei romani. Eppure l’impero che hanno costruito ha beneficiato di amicizie e connivenze con la società della capitale. Professionisti, imprenditori, politici, nati e cresciuti a Roma, che hanno agevolato l’ascesa dei padrini calabro-romani. Nelle carte in mano agli investigatori c’è traccia anche dei legami dei capi clan con impresari membri di logge massoniche. E l’amicizia con un consigliere comunale di un paese della provincia di Roma, eletto con Fratelli d’Italia. 

Su tutti il c’è il boss Vincenzo Alvaro. Un pezzo da novanta della mafia della provincia di Reggio Calabria, che attraverso una rete di teste di legno e prestanome, ha gestito attività commerciali in diversi settori, tra gli altri, della panificazione, della gastronomia, della ristorazione. Emerge dall’inchiesta della procura antimafia di Roma che ha portato in carcere 24 persone, 2 ai domiciliari, sospettate di appartenere alla locale romana della ‘ndrangheta. La seconda operazione in pochi mesi, coordinata dal pm Giovanni Musarò e condotta dalla Direzione investigativa antimafia della capitale.

La prima retata risale allo scorso maggio: oltre agli arresti erano state sequestrate 25 società per un valore di 100 milioni di euro. I boss e i complici acquisivano prima le attività commerciali poi anche gli immobili, versando un anticipo esiguo e poi pagando in contanti le rati restanti, tutto nascosto grazie alla compiacenza di insospettabili. Non ci sono soltanto gli Alvaro a governare il crimine nella capitale. I satelliti della mafia oggi più potente e ramificata nel mondo si chiamano anche Bellocco, Piromalli, Mancuso, Crea, Palamara, Strangio. Sono tutti casati della ‘ndrangheta originaria della provincia di Reggio Calabria, il territorio in cui dominano le cosche con più connessioni internazionali, incluse quelle con i narcos sud americani. 

L’amico di Fratelli d’Italia

Tra gli arrestati c’è anche Marco Pomponio che fungeva da braccio commerciale delle attività riconducibili a Vincenzo Alvaro e alla sua organizzazione. Pomponio si è occupato anche di un ristorante a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove è entrato in rapporti con i proprietari delle mura. Il figlio del proprietario è consigliere comunale nel paese della provincia di Roma, eletto nel partito di Giorgia Meloni. 

«Sul punto è opportuno sottolineare che fra i soggetti dell’amministrazione comunale di Fonte Nuova vicini a Marco Pomponio vi è senza alcun dubbio Cristian Capriotti (non indagato,ndr)  il quale ricopre la carica di consigliere comunale», scrive il giudice Gaspare Sturzo, riportando le annotazioni dei detective dell’antimafia. 

In particolare da una conversazione intercettata sono emerse le attenzioni del politico meloniano nei confronti di Pomponio.  «Proprio Cristian Capriotti aveva avvisato Pomponio in merito ai controlli che stava eseguendo la polizia giudiziaria», si legge nelle carte. I controlli riguardavano le autorizzazioni all’apertura di quel locale che non aveva mai subito alcun controllo nonostante il titolare fosse sprovvisto di licenza.

«Cosa assai più importante è come la polizia giudiziaria abbia attribuito la mancanza di controlli quanto alla particolare posizione dei proprietario dell’immobile, la famiglia Capriotti, di cui uno dei componenti aveva avuto dall’interno del comune la notizia riservata dell’esistenza dell’indagine» rivelandola a Pomponio, lui si è coinvolto direttamente nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta e in stretto contatto con Alvaro, il capo della ‘ndrangheta a Roma. 

Secondo gli investigatori Alvaro grazie a Pomponio ha esteso gli affari nel settore ittico, nella vendita cioè di pesce all’ingrosso. Merce che poi finiva nei ristoranti della città e della provincia. 

Minacce e prescrizione

«Non devi toccare i miei soldi...sei un infame, servo dello stato». Parlava così donna Carmela Alvaro, la figlia del boss. Appartena che ostentava senza troppi problemi davanti all’amministratore dei beni posti sotto sequestro al clan. A tal punto da minacciarlo, «lo brucio questo locale», frase con un solo senso: o è mio o non può essere di nessuno. Del resto donna Carmela ha avuto un mentore d’eccezione, suo padre. Il boss Alvaro è uno personaggio particolare e diverso da molti altri capi mafia. Soprattutto perché maneggia la materia societaria, sa come camuffare la proprietà, in questo è un maestro, dice. «Bisogna trovare un polacco. un rumeno, uno zingaro a cui regalare 500/1000 euro, a cui intestare sia le quote sociali e le cose e le mura della società», è Alvaro che spiega al suo complice, il tutto intercettato dalla Dia. Il boss aggiunge:«Io ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo e ho la bancarotta fraudolenta... poi mi hanno arrestato...mi hanno condannato,..e ancora devo fare l’appello...vedi tu...è andato in prescrizione...le prescrizioni vanno al doppio delle cose». La giustizia secondo il padrino, che sa bene quanto a volte basti aspettare il tempo che passa per salvarsi da una condanna. 
 

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