Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Mentre si combatte la guerra di mafia intestina per il controllo della città, tutto il resto continua a muoversi come se nulla fosse. Mafia e affari commerciali, trame losche e bisogni della vita quotidiana si inseguono a Catania senza un nesso apparente.

I luoghi, le abitudini e la stessa aria che si respira sono condizionate da poteri che passano sopra le teste dei cittadini: così si vive in terra di mafia la quotidiana normalità di una Cosa nostra immersa dentro le questioni economiche.

Distante dal centro città, nella sperduta contrada Cubba – che un tempo era la porta di accesso ai campi sconfinati della “piana”, dove c’erano masserie e piantagioni – esiste oggi un’oasi nel deserto. Dentro una chiazza colorata tra il verde e il basalto, trovi negozi e capannoni che si stagliano dentro una cornice di alberi e torrenti artificiali. Lasciata l’auto nel parcheggio puoi scegliere se andare al cinema o addentrarti nel cuore della galleria commerciale, della quale avverti presto il richiamo attraverso le note che introducono a un Karma; se non proprio quelle dell’occidentalis karma, che tempo fa ha trionfato a Sanremo.

Aperte le porte automatiche ti immergi nel fiume umano dei visitatori, dentro flussi che si muovono sinuosi nelle due opposte direzioni di marcia. Le vetrine, alte più di quattro metri, ti sovrastano mentre vieni avvolto da un diadema di luci. Attirato da ciò che vedi dall’esterno, istintivamente compi i tre passi che ti portano già dentro un negozio. Fai appena in tempo a varcare la soglia e ti si para davanti una commessa col décolleté in bella mostra. Ti guarda diritto in volto con una faccia ruffiana, che le ride tutta a partire dalle fossette che stanno sotto gli zigomi e gli occhi grandi e neri, come può accadere solo alle ragazze che nascono da queste parti. Ti toglie dalle mani la polo che stavi guardando, la allarga e te la punta sulle spalle mentre inonda l’aria di una essenza dal gusto orientale.

«Dovrebbe essere la sua misura: la provi!» E poi, guardandoti mentre la indossi, commenta come se fossi un modello da sfilata: «Guardi, ce lo giuro, non è perché gliela devo vendere, ah!, ma questa maglia a lei ci sta troppo bene!» E così, dopo esservi scambiati sguardi e parole un po’ ruffiane tradotte direttamente dal dialetto, avrete la stessa confidenza come se aveste ballato il tango per mezzora. L’avventore, uomo o donna che sia, è sedotto. Sono così i catanesi, sono nati per vendere. Ti convincono con le parole, con i gesti e con tutti gli strumenti che hanno: le donne col fascino, gli uomini con la simpatia; e alla fine, se una cosa ti piace, la compri. È una storia lunga, che oggi fa venire un po’ di rammarico, quella della Catania capitale del commercio.

Catania cambia volto

Il bene e il male di questa vocazione unica hanno un’origine precisa. A metà degli anni Sessanta la città aveva subito una grande trasformazione. I palazzi che venivano eretti in altezza nel suo centro nuovo riservavano ampi locali alle botteghe commerciali. Insegne e vetrine si moltiplicavano dando luce e colore alle vie del passeggio: dai negozi dell’alta moda del Corso Italia, come Ina Prato e Thea Riccioli, ai discount di calzature e alle rosticcerie di viale Mario Rapisardi, molte delle quali si chiamavano Pistorio, anche se appartenevano a titolari diversi.

Ma quello che caratterizzava i quartieri erano le piccole attività dei generi alimentari. Ve ne erano a ogni isolato, raggruppati in piccole colonie, e la loro conduzione familiare generava un’identificazione tra l’attività e il suo titolare. Vicino a casa mia – nella zona del carcere di Piazza Lanza – ‘u pannitteri forniva il pane fresco di casa; ‘u chianchieri esponeva una varietà di carni appese ai ganci; una latteria, che poi allargò l’offerta ad altri generi alimentari, continuò anch’essa a essere identificata con la lattara, che era la titolare. La presenza di queste persone caratterizzava la vita stessa del quartiere perché esse davano un volto umano e familiare anche alle relazioni semplici che si instauravano per fare la spesa. La città, con la sua vocazione piccolo borghese e commerciale, si identificava con queste figure e le accompagnava lungo i piccoli traguardi della vita e fino a che durava la vita stessa: la loro crescita era la crescita di Catania. Si gioiva con loro per la laurea dei figli, che coronava il desiderio di tutta una comunità di portarsi avanti.

Si partecipava dei fatti spiacevoli rispetto ai quali ci si sentiva tutti un po’ coinvolti. Ricordo che ero ancora bambino quando venni a sapere che uno dei figli del macellaio aveva messo la sua mano nel tritacarne ancora acceso, tant’è che povero ragazzino, dopo essere stato dimesso dall’ospedale, fu costretto ad andare in giro con un moncherino. La vicenda trovò eco nella cronaca locale e tutti nel quartiere si strinsero attorno a lui e al papà, mentre oggi magari – apprendendo una simile notizia da un blog – invocherebbero contro il genitore i rigori della legge. L’esercizio che sembrava meglio avviato era il generi alimentari. Tutto il quartiere faceva la spesa lì e solo per rifornimenti eccezionali ci si spostava fino alla Standa di piazza Borgo o alla Sivad di via Cesare Beccaria, che erano in centro città. Ma col tempo anche quella stagione andò tramontando. Iniziava a farsi strada la grande distribuzione: la Sivad cedette le proprie insegne alla S7 che aprì molti punti vendita, e dal 1984 quella sigla apparve stampata sulle magliette dei brasiliani Luvanor e Pedrinho, essendo divenuta sponsor della squadra di calcio del Catania, appena ritornata in serie A. Iniziò la pubblicità con le offerte sui volantini e i catanesi si resero conto che in quel modo potevano risparmiare una bella fetta di stipendio.

E così, poco alla volta, per via delle “offerte speciali” la fila per essere serviti nel vecchio alimentari di via Salvatore Paola iniziò ad assottigliarsi, fino a quando il negozio, che era sempre pieno, cominciò a svuotarsi e con i titolari sull’uscio in attesa dei clienti. La preoccupazione iniziava a leggersi sul volto della brava e onesta proprietaria, fino a che un giorno, a dare il colpo di grazia ci pensarono i ladri. Nella notte riuscirono a entrare nella bottega e con l’ausilio di un furgone svaligiarono tutti i reparti, anche quello dei vini pregiati di cui disponeva. La lattaia svegliata nella mattinata dalla notizia del furto, non resse a quella botta e sopraffatta da un infarto morì. E con lei finì la storia di quel piccolo esercizio commerciale.

Si costruiscono i centri commerciali

[…] A Catania già alla fine degli anni Ottanta, per iniziativa del Cav. Salvatore Conservo, nell’area industriale di Misterbianco si era insediato il primo centro commerciale, Cittamercato, poi passato alla catena Auchan. E qualche anno dopo, vicino all’aeroporto era stato realizzato l’Auchan, che oggi si chiama Cittamercato. Entrambi i centri erano dotati di annesse gallerie commerciali e di ristoranti e caffè per intrattenere coloro che volessero trascorrervi l’intera giornata. Ma negli anni successivi nell’area del catanese il numero dei megacentri si è moltiplicato. È sorto il Centro Cicolpe alle porte di Acireale, Il centro Katanè con Ipercoop a Gravina di Catania e sempre a Misterbianco il mega insediamento Etnapolis che contiene anche un grande cinema multisala oltre a diversi ristoranti. E, ancora, I portali, sempre a San Giovanni la Punta.

Poi si son fatti strada i centri commerciali gestiti inizialmente con marchio Despar e tra questi Le Zagare a San Giovanni la Punta e Le Ginestre tra Gravina e Mascalucia. Successivamente confiscati – dopo la condanna per concorso esterno alla mafia di Sebastiano Scuto che ne era il patron – i centri hanno proseguito con sigle diverse.

Insomma, di queste realizzazioni ve ne erano già abbastanza da far ritenere che la domanda fosse satura, tanto che la loro presenza nell’hinterland di Catania rappresentava un record nazionale. Eppure altre ne sarebbero sorte negli ultimi anni e altre ancora progettate e non realizzate. Tra quelle sorte in epoca più recente ne spiccano due, entrambe collocate in aree abbastanza contigue nei pressi dell’aeroporto, esposte alla vista di quanti atterrano a Catania dopo avere attraversato l’entroterra della piana. Quasi come un biglietto da visita che lascia presagire che dietro ci sia molto di più di una semplice iniziativa economica. Come una scia che introduce alla città e al cuore dei suoi problemi attraverso un varco di osservazione. Un viaggio che, giocando con le parole, inizia esattamente da una delle più singolari “porte” di Catania.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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