La produzione di auto in Italia è in declino e questa tendenza non promette bene per il settore italiano della componentistica che finora ha mostrato notevole vitalità, a dispetto dei problemi della Fiat. Nel 2025 l’Italia scivolerà all’ottavo posto per produzione di automobili in Europa: faranno meglio Germania, Spagna, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Regno Unito e Polonia. Sarà quest’ultima a completare il sorpasso nei prossimi quattro anni, grazie in particolare allo stabilimento di Tychy (in origine Fiat e ora Stellantis) che raddoppierà la produzione rispetto al 2019 anche grazie alla decisione annunciata dal neonato gruppo automobilistico di concentrare lì la nuova piattaforma del segmento B.

Le stime sono della società di consulenza AlixPartners, che ogni anno realizza un autorevole studio sul settore auto. Secondo le sue previsioni, la produzione di veicoli leggeri (auto e furgoni) in Italia passerà da circa 730mila pezzi del 2020 a poco più di 800mila del 2025, mentre nel frattempo la Polonia, con Volkswagen, Stellantis e Psa, più che raddoppierà la produzione sfiorando il milione di veicoli. Il caso Tychy è un esempio di delocalizzazione riuscita: lo stabilimento, secondo le stime di AlixPartners, diventerà nel 2025 il terzo più grande d’Europa preceduto solo da due impianti della Volkswagen, la storica sede di Wolfsburg e quella a Mlada Boleslav nella Repubblica Ceca. Un grande successo per la Polonia, che continua a incentivare gli investimenti stranieri nel proprio tessuto industriale, e per Stellantis.

Il declino italiano

Ma in questa storia c’è un particolare che stride e che getta un’ombra sul capitalismo all’italiana. E cioè che mentre l’Italia ha ridotto la sua produzione di auto dislocandola altrove, le economie vicine hanno puntato sulle quattro ruote e, pur delocalizzando, sono riuscite a mantenere una consistente produzione in casa. Dimentichiamo per un attimo i livelli produttivi del 2020, condizionati dal crollo della domanda per l’emergenza Covid-19, e andiamo a vedere quelli più «normali» del 2019: la Germania ha sfornato 4,8 milioni di vetture, la Spagna 2,8 milioni, la Francia con i suoi sindacati agguerriti e un invidiabile benessere quasi 2,2 milioni. Fino al Regno Unito che qualcuno immagina concentrato a fare solo finanza e che invece tra Mini, Nissan, Jaguar ha realizzato in quell’anno ben 1,3 milioni di auto. L’Italia, il paese della Fiat, dell’Alfa Romeo e della Maserati, si è invece fermata a meno di 900 mila veicoli. Rischia di essere raggiunta anche dalla Romania.

Nel 2025, tra i primi 20 stabilimenti per volumi in Europa, non ce ne sarà nessuno italiano, neppure il più grande, quello di Melfi che rischia di essere surclassato dalla fabbrica tedesca della Tesla, pronta ad arrivare a 340 mila auto elettriche all’anno.

Come viene sottolineato in uno studio di Nomisma sul futuro dell’automotive, «nella storia economica dell’automobile, nessun paese ha registrato un regresso industriale come l’Italia, che nel 1989 raggiunse il proprio massimo storico con una produzione di 1,971 milioni di auto tradizionali».

Un declino più o meno costante che deve aver avuto sulla classe dirigente l’effetto “rana nella pentola”: la temperatura sale troppo lentamente perché l’animale si accorga che sta per morire. A parte aiutare l’unica azienda nazionale senza chiedere nulla in cambio, nessuna azione politica è stata focalizzata – a differenza di Germania, Francia e Spagna – sulla creazione di un ambiente favorevole per un’industria fondamentale per l’economia nazionale. Secondo l’Anfia, l’associazione che riunisce le aziende dell’automotive nazionale, il settore ha un’incidenza sul Pil italiano del 5,9 per cento e dell’11,3 per cento sul fatturato del settore manifatturiero. L’ennesima conferma è arrivata martedì 23 febbraio dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, che, incontrando i sindacati della Fca, avrebbe detto che i costi medi di produzione delle auto in Italia sono più alti che in altri paesi in cui opera il gruppo Stellantis, come Francia e Spagna, ma ciò non sarebbe dovuto al costo del lavoro: il gran capo portoghese si è mantenuto sul vago, riferendosi probabilmente ai limiti del sistema-paese e alla mancanza di sostegni statali.

Per fare un esempio, di recente la Spagna ha incentivato gli investimenti di Psa in nuovi impianti di assemblaggio mettendo a disposizione fondi pubblici per più di 20 miliardi di euro con l’obiettivo di rafforzare il proprio posizionamento come paese assemblatore. Anche la Slovacchia ha supportato Jaguar Land Rover per la costruzione di un nuovo stabilimento.

In un documento dell’Anfia sul settore della componentistica si sottolinea che ogni apertura di nuovi stabilimenti può sviluppare effetti positivi non solo sull’occupazione diretta ma anche sulla crescita di un ecosistema, grazie alla collaborazione con il tessuto delle aziende locali: «Numerose imprese di matrice non europea, leader in ambiti innovativi, hanno già iniziato a stabilire nuove strutture produttive in Europa per rispondere ai requisiti di localizzazione dettati dai principali costruttori di auto. Per esempio fornitori asiatici e americani di batterie hanno già iniziato a espandersi in Europa, ma nessuno di questi ha ancora pianificato o annunciato aperture in Italia».

Per l’Anfia è gioco facile denunciare la «conclamata difficoltà nel programmare investimenti pubblici per sostenere l’attrattività di investimenti privati in Italia». E rilevare che «assecondare la richiesta di ulteriori incentivi alla domanda a scapito di investimenti in ricerca e innovazione è solo l’ennesima prova di questa attitudine». Ma è altrettanto vero che, come la stessa associazione riconosce, non si vedono in giro per l’Italia tanti imprenditori privati capaci di creare nuovi poli produttivi, vuoi per scarsa capacità manageriale, vuoi per mancanza di capitali.

Il destino della componentistica

Nel frattempo ci consoliamo vantandoci della nostra componentistica, un settore che vale 49,2 miliardi di ricavi e che dà lavoro a oltre 164mila persone. Un settore fatto da «operatori ormai transnazionali se non globali» come ricorda Dario Duse, managing director di AlixPartners. Secondo gli analisti di Nomisma, «la componentistica (di primo impianto o after-market) è particolarmente importante non solo per l’automotive, ma per l’intera economia nazionale, in quanto è il comparto tecnologicamente più avanzato, le cui ricadute innovative (materiali, chimica, ingegneria meccanica ed elettronica, telematica, informatica) interessano potenzialmente tutti i settori dell’economia».

Ma se l’Italia produce sempre meno automezzi, non c’è il rischio che anche la nostra componentistica sfiorisca? A Nomisma non sono molto ottimisti sul futuro dei fornitori: «Malgrado l’alta capacità di adattamento dei produttori di componentistica nazionale, il ridimensionamento della produzione interna ha comunque avuto effetti negativi. Un ridimensionamento che non ha trovato sostituti esteri sul suolo nazionale, a causa delle crescenti difficoltà delle grande industria ad operare in Italia».

Duse di AlixPartners invece è convinto che le aziende italiane possano farcela, proiettate come sono sui mercati internazionali. E lo ribadisce Paolo Scudieri, presidente del gruppo campano Adler, una multinazionale della componentistica con 1,8 miliardi di fatturato e 80 stabilimenti tra Americhe, Asia ed Europa: «La componentistica è un pezzo fondamentale di quel prodotto complesso che oggi è un’auto e che domani sarà un’autoide, il connubio tra uomo e macchina. L’evoluzione della componentistica va al di là dei territori, deve seguire le dinamiche industriali. Però è importante che le imprese non lascino l’Italia, è necessario portare produttori stranieri di auto e di componentistica nel nostro paese che ha un patrimonio enorme di conoscenze nel settore. Da questo punto di vista la Brexit è un’opportunità».

Oggi Adler ha otto impianti in Italia e probabilmente, se ci fossero altre case automobilistiche presenti nel nostro territorio, sarebbero di più o più grandi. Chissà, forse un giorno riusciremo a convincere un gruppo cinese a produrre auto in Italia. Per esempio lo si potrebbe chiedere a quelli della Faw, in cambio dell’Iveco. E non per fare delle supercar come quelle annunciate in Emilia, ma macchine vere, con numeri veri.

Guido Fontanelli è autore di Autoshock, viaggio nella rivoluzione dell’auto elettrica (Mind Edizioni).

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