Quanto accaduto al porto di Taranto sei anni fa, quando il gestore del terminal container se ne andò, rescindendo la concessione e lasciando oltre 500 persone senza lavoro, potrebbe ripetersi. Ma la via per sventare il pericolo, oltre a mostrare una delle tante aberrazioni dell’applicazione indiscriminata del "modello Genova", rischia di essere anche più spaventosa in una città già segnata, con Ilva, dal sacrificio di salute e ambiente ad un’industria senza regole.

Dopo anni sugli scudi, nel 2015 il terminal container di Taranto conobbe l’acme di una crisi che covava da tempo. Le dinamiche del trasporto marittimo stavano mutando, gli scali di transhipment (dove i container sbarcati dalle navi più grandi sono smistati attraverso unità minori) cominciavano a spostarsi verso la sponda meridionale del Mediterraneo e le dimensioni delle navi iniziavano a diventare incompatibili coi fondali tarantini. La concessione del terminalista TCT prevedeva l’impegno dell’Autorità portuale al dragaggio e l’inadempimento dell’ente fu lo strumento utilizzato dalla società, controllata da due colossi asiatici del trasporto marittimo come la taiwanese Evergreen e la Hutchison di Hong Kong, per chiudere i rapporti con Taranto in modo indolore. Ma solo dal suo punto di vista: da allora centinaia di portuali vivono di una sorta di cassa integrazione foraggiata dallo Stato.

Qualcosa non quadra. L'appalto da 72 milioni di euro - per realizzare il dragaggio e la vasca di colmata destinata ad ospitare 2,3 milioni di metri cubi di fanghi contaminati - era stato aggiudicato alla Astaldi già nel 2014, grazie a un ribasso di circa 20 milioni e la previsione di 670 giorni di lavori. I problemi però cominciarono subito. Il progetto esecutivo venne contestato da Autorità portuale e Anac: la risoluzione del contratto fu scongiurata dall’appaltatore, ma il verbale di inizio lavori è arrivato solo nel gennaio 2017. La crisi finanziaria di Astaldi, intanto, si è aggravata e a nulla sono serviti i poteri commissariali attribuiti dal governo Monti già nel 2012 al presidente dell’Autorità portuale Sergio Prete. Fra essi quello di costituire un “Organismo collegiale amministrativo/contabile/tecnico/operativo di supporto” alla gestione degli appalti, cui Prete chiamò, “intuitu personae” (cioè senza concorsi), l’avvocato Camillo Cancellario (cofondatore dello studio legale beneventano di Umberto Del Basso De Caro, all’epoca sottosegretario alle Infrastrutture), Luca Danese (nipote di Giulio Andreotti, manager pubblicitario e turistico, assessore al bilancio nel Lazio fra 1993 e 1995, parlamentare con Forza Italia nel 1996, passato poi per Cdu, Udeur e Api e già sottosegretario del Mit nei governi D’Alema e Amato 1998-2001), e il commercialista di Barletta Lorenzo Chieppa. Due mesi dopo, resosi conto che “in detto Organismo non erano presenti professionalità tecniche-ingegneristiche idonee ai compiti tecnici” (cioè le problematiche relative all’appalto per i dragaggi), coinvolse anche Aldo Mancurti, ingegnere in pensione della Presidenza del consiglio e di vari ministeri.

L’operazione è stata censurata severamente dalla Corte dei Conti, insieme ai perduranti ritardi, ma Prete, confermato da Paola De Micheli appena prima di lasciare il la guida del ministero delle Infrastrutture, ha sempre tirato dritto, facendo valere i suoi pieni poteri anche a dispetto dell’invito a rescindere l’appalto con Astaldi che il responsabile unico del procedimento Gaetano Internò avrebbe secondo indiscrezioni più volte avanzato.

Ad agosto 2020 la realizzazione dell’opera era intorno al 50 per cento e si è fatto concreto il rischio che il gruppo turco Yildirim, subentrato nel 2019 con una concessione di 49 anni (ma l’assunzione di solo poche decine di persone, in attesa dello scavo), se ne andasse come il predecessore. Ma ecco l’ancora di salvezza del decreto Semplificazioni, varato a settembre dal governo Conte. Ricalcando quanto previsto dal decreto Genova per la ricostruzione del ponte Morandi, obbliga tutte le stazioni appaltanti a nominare un Collegio consultivo-tecnico. Una sorta di collegio arbitrale di tre membri, dotato di poteri coercitivi inappellabili per la “rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche” con l'appaltatore.

Il nodo dei ritardi infatti risiede nelle numerose non conformità rilevate dalla direzione lavori, nelle riserve milionarie di Astaldi e nella pretesa di questa di non procedere fino al pagamento integrale di lavorazioni che la stessa direzione lavori ha ritenuto parziali e contabilizzato come tali, giudicando fra l'altro (insufficienti le risoluzioni proposte dall’appaltatore in merito ai rilievi sulla tenuta della vasca di colmata in cui immettere i fanghi inquinati del dragaggio.

Le determine del Collegio (che Domani ha letto sebbene, in spregio alla norma, l’Autorità portuale non le abbia pubblicate) sposano però le ragioni di Astaldi. E soprattutto quelle dell’Autorità portuale, imponendo che si proceda coi lavori a prescindere, e coi pagamenti pretesi, comprensivi di 17 milioni di euro di riserve, cioè soldi in più chiesti da Astaldi per fare fronte a oneri non previsti dal contratto. Se poi ci saranno sversamenti, Astaldi e i suoi assicuratori ne risponderanno. Una soluzione che salva l’accordo coi turchi ma che pone un’evidente e seria ipoteca ambientale.

Per giunta la nomina dell’arbitro dell’Autorità portuale (che non ha risposto alle nostre domande) e di quello scelto congiuntamente con Astaldi violano il decreto e le linee guida del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici sulla compatibilità dei membri del Collegio che, a garanzia di terzietà, non devono aver avuto nulla a che fare con l’appalto. Prete invece ha indicato proprio Mancurti mentre la presidenza del Collegio è andata a Gianluca Ievolella, componente e primo firmatario di diversi pareri della sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici che si occupò della approvazione del progetto dell’opera.

Giudice e giudicato sotto un unico cappello e verdetto scontato: per tentare di salvare il lavoro e un appalto problematico, a Taranto dovranno nuovamente rischiare la salute.

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