Paola Clemente era una bracciante agricola che avrebbe compiuto 50 anni il 23 agosto del 2015. Qualche settimana prima, il 13 luglio alle 8 del mattino si era accasciata al suolo nelle campagne di Andria, in contrada Zagaria, mentre raccoglieva l’uva. Colpita da un’ischemia cardiaca, in atto già da qualche ora.

C’è un giudice a Trani

«Tale sintomatologia si manifestava costantemente anche durante le ore di lavoro su quei fondi, a partire dalle 5.30 del mattino circa. Nessuno dei colleghi della Clemente che provvedesse ad allertare l’autista del bus al fine di trasportare la medesima, già durante il viaggio, al più vicino pronto soccorso, ovvero provvedesse ad allertare tempestivamente il 118 per l’invio di una ambulanza sui luoghi di lavoro, che interveniva, invece, soltanto alle 8.34, solo dopo che la Clemente perdeva conoscenza, alle ore 8.00».

Questa è la ricostruzione degli istanti che hanno preceduto la morte della bracciante, fatta dal sostituto procuratore di Trani, Alessandro Pesce, che ha firmato il decreto con cui ha disposto il giudizio (con il relativo processo che comincerà a febbraio del 2021) nei confronti di Luigi Terrone, amministratore unico dell’azienda agricola Ortofrutta meridionale srl dove la donna lavorava.

L’impresa ha sede a Corato e si avvale di circa 250 dipendenti impegnati tutto l’anno per la produzione di uva da tavola e di verdure. «La nostra azienda ha toccato anche i 12 milioni di euro di fatturato», si legge sul sito internet dell’Ortofrutta meridionale.

Terrone oggi è accusato dalla procura di Trani di aver risparmiato sui costi dei lavoratori e di non averli sottoposti «alla sorveglianza sanitaria obbligatoria, di informare e formare i lavoratori somministrati dalla Infor Group, di adottare i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e assistenza medica di urgenza».

Terrone è inoltre accusato di aver «cagionato», «violando i propri doveri di coordinamento, direzione, organizzazione, controllo dell’integrità fisica dei lavoratori», la morte di Paola Clemente.

«Spero soltanto che la morte di mia moglie possa servire a sensibilizzare le istituzioni sulla tragedia dello sfruttamento in agricoltura e che ci siano sempre più controlli», dice Stefano Arcuri, il marito di Paola, che aggiunge: «Ho scelto di portare avanti questa battaglia per la verità, non solo per rendere giustizia a mia moglie, ma per far sì che tragedie come queste non accadano più e per sensibilizzare gli altri braccianti, per squarciare così il velo di omertà che avvolge ancora le nostre campagne».

Oggi Arcuri, insieme al figlio Marco, è testimone nel processo di Trani che ha avuto origine dalle denunce dalla sezione pugliese della Flai Cgil, il sindacato dei lavoratori dell’agricoltura. Gli ultimi istanti di vita di Paola Clemente li racconta una sua collega che ha scelto di rimanere anonima e che chiameremo Lucia: «Abbiamo cercato di farla riprendere, asciugandole il sudore con le nostre magliette.

Abbiamo anche avvisato l’autista del mezzo, Salvatore, e colui che organizza i viaggi, Ciro Grassi, ma tutti e due continuavano a ripetere che non era possibile tornare indietro, perché dovevano accompagnare le altre donne per la giornata in campagna».

In un primo momento, in quella estate del 2015 in cui morirono di fatica nelle campagne pugliesi altri 4 braccianti, italiani e stranieri, nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo, insieme a Terrone, erano finiti anche l’autista del mezzo, Salvatore Filippo Zurlo, la cui posizione è stata nel frattempo archiviata, e soprattutto Ciro Grassi, il proprietario dell’omonima agenzia di noleggio con conducente, che forniva i bus su cui ogni giorno centinaia di braccianti, compresa Clemente, viaggiavano dalla provincia di Taranto a quella di Bari. La posizione di Grassi per quella accusa è stata stralciata.

La rete

Ma è proprio partendo dalla morte di Paola Clemente e dai rapporti tenuti da Grassi con i funzionari dell’«agenzia di Bari», l’interinale Infor Group di Noicattaro, che si è originato un altro processo che si sta svolgendo davanti al tribunale di Trani. Grassi, difeso dall’avvocato Salvatore Maggio, è imputato di concorso in truffa, intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro (il reato di caporalato è stato inserito nel nostro ordinamento proprio dopo le vicende drammatiche accadute nell’estate del 2015 in Puglia).

Perché, secondo quanto si legge nel decreto di rinvio a giudizio firmato sempre dal magistrato Pesce, «svolgeva, avvalendosi dell’agenzia Infor Group, una attività di intermediazione reclutando manodopera agricola in provincia di Taranto allo scopo di destinarla alle aziende della provincia di Bat, in condizioni di sfruttamento, mediante minaccia e intimidazione, anche implicita, consistita anche nella prospettazione di non essere portati più al lavoro in caso di ribellione».

Insieme a Grassi sono imputati Pietro Bello, direttore della divisione agricoltura della Infor Group di Noicattaro; Oronzo Catacchio e Giampietro Marinaro, entrambi gestori dell’agenzia. Secondo la tesi dell’accusa, i lavoratori venivano selezionati non per il tramite del database di cui dispone la Infor Group, ma direttamente da Grassi e dalla cognata di quest’ultimo, Giovanna Marinaro. Il sistema funzionava così: Grassi e Marinaro, il caporale e la fattora, insieme a una fitta rete di altri capi squadra, reclutavano i braccianti nel territorio orientale della provincia di Taranto, in particolare tra le donne a basso reddito che vivevano nei comuni di Lizzano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico.

Successivamente, i caporali e le fattore acquisivano i documenti di identità necessari all’assunzione e li consegnavano ai funzionari dell’agenzia interinale Infor Group. Tutti insieme, poi, frodavano sia i braccianti, a cui riuscivano, «omettendo il versamento delle giornate», a quasi dimezzare la paga prevista dal contratto nazionale (da 44 euro a 27), sia lo stato, chiudendo, così, la filiera dello sfruttamento.

Nei tre mesi del 2015 in cui si sono svolte le indagini della Guardia di finanza, sono stati somministrati ad alcune imprese agricole della zona di Bari dall’agenzia interinale Infor Group, 7.524 braccianti, per un totale di 943 giornate di lavoro, con relative omissioni dei contributi Inps. E sono, infine, 118 i braccianti e le braccianti parti lese in questo processo, insieme al marito di Clemente, morta di fatica e di sfruttamento.

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