Protagonista assoluto di un regno lungo e controverso, papa Francesco lascia una chiesa divisa da polarizzazioni che non ha saputo stemperare, e che anzi in alcuni momenti ha contribuito ad acuire. Il suo pontificato, nuovo e promettente nei primi anni, con il trascorrere del tempo e il declino fisico si è progressivamente rivelato contraddittorio. A causa soprattutto di un governo problematico, insoddisfacente come quello dei suoi due ultimi predecessori, ma in modo del tutto diverso. Solitario e autocratico è stato l’esercizio del potere di Bergoglio, segnato da un autoritarismo da lui stesso più volte riconosciuto; invece, quelli di Ratzinger e ancor prima di Wojtyła di fatto poco efficaci, perché delegati a collaboratori in prevalenza italiani non all’altezza o sleali.

L’indubbia e del tutto condivisibile volontà riformatrice del gesuita argentino ha sicuramente dovuto affrontare una situazione difficile e resistenze curiali tenaci, con conseguenti momenti di scontro, anche di inusitata durezza. Ma papa Bergoglio ha dovuto fare i conti anche con i limiti più che evidenti della sua personalità complessa e a tratti indecifrabile. A causa di un passato nel suo paese – dove non è mai più tornato dopo l’elezione – che in parte resta nebuloso, se non addirittura oscuro, e di rapporti mai facili con le due curie a cui doveva fare riferimento: quella generalizia della Compagnia di Gesù all’ombra della cupola di San Pietro e la criticatissima curia romana.

Sintomatico è quanto volle dire ai giornalisti incontrati tre giorni dopo l’elezione a proposito della scelta del nome papale, attribuendolo – come poi farà spesso durante il pontificato – a interlocutori mai precisati e con ogni probabilità inesistenti. «No, no, il tuo nome dovrebbe essere Clemente» gli avrebbe detto un cardinale: così «ti vendichi di Clemente XIV», che nel 1773 su pressione delle monarchie borboniche aveva soppresso i gesuiti.

La storia dell’ascesa 

Se la storia precedente il pontificato resta ancora in parte da indagare, ormai chiara è invece quella della sua ascesa, ostacolata dal suo ordine e che invece è stata favorita in ogni modo dal cardinale ultraconservatore Antonio Quarracino, arcivescovo di Buenos Aires. Bergoglio fu successivamente suo ausiliare, coadiutore, successore, e venne a sua volta creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 2001.

Parte subito da allora la campagna che lo porterà al pontificato, come conferma nel 2023 lo stesso Francesco nel prologo all’importante libro intervista con Francesca Ambrogetti e Sergio Rubín (Non sei solo, Salani). Alcuni corrispondenti a Buenos Aires «in quell’occasione mi chiesero quale ritenessi dovesse essere il profilo del nuovo papa e io risposi, sicuro: un pastore. Difficile immaginare, in quel momento, che dodici anni dopo sarei diventato proprio quel pastore».

Il gesuita viene così votato nel conclave del 2005, di cui rivela inusualmente dettagli a giornalisti suoi confidenti. Innanzi tutto a Lucio Brunelli, che li pubblica nella rivista Limes solo cinque mesi più tardi attribuendoli a un anonimo elettore, poi a Gerald O’Connell, che nel 2019 dedica un libro all’elezione di Bergoglio, e infine nel 2024 a Javier Martínez-Brocal, membro dell’Opus Dei, autore di un’intervista (Il successore, Marsilio), per nulla convincente, sui rapporti del pontefice argentino con Benedetto XVI per sostenere la bizzarra tesi della continuità tra i due papi.

In questi racconti le versioni del papa sui conclavi a cui ha partecipato non sono state sempre del tutto coerenti tra loro e soprattutto contrastano con altre ricostruzioni, concordi invece sul ruolo esercitato nel 2005 dal cardinale Carlo Maria Martini, grande elettore spesosi per Ratzinger – che il biblista gesuita votò e fece votare – ma che nel libro del compiacente giornalista spagnolo non è nemmeno nominato.

Fronti e acrobazie 

Diversi sono stati i fronti su cui Francesco ha combattuto, compensando i suoi evidenti limiti caratteriali e di preparazione con la forte inclinazione per la politica e un’indiscutibile abilità manovriera maturate nel difficile contesto del populismo peronista. Sicuramente l’origine argentina era all’origine delle sue valutazioni politiche, spesso estemporanee e che hanno costretto la Santa sede a precisazioni a volte acrobatiche.

Come sono state le affermazioni sull’Ucraina in senso antiamericano e filorusso, ma anche quelle relative a diversi paesi dell’America latina, dal Venezuela al Nicaragua. Fino ai ricorrenti elogi alla Cina, scenario spinoso e a proposito del quale il papa è stato criticato anche da esponenti autorevoli del cattolicesimo cinese per le eccessive concessioni al regime nell’attuazione dell’accordo sulla nomina dei vescovi, il cui testo è tuttora segreto.

La comunicazione 

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Politico e uomo di potere, Francesco ha saputo usare con maestria e in prima persona la comunicazione nel costruire la propria immagine. Non solo durante la campagna elettorale più che decennale, ma anche stabilendo un rapporto personale con molti giornalisti e così riuscendo nell’impresa di presentarsi – lui conservatore e populista – come aperto e progressista.

In questa operazione ha avuto un ruolo centrale la scelta di abitare non più nel palazzo «apostolico» che si affaccia su piazza San Pietro bensì nel massiccio edificio vaticano di Santa Marta, voluto da Giovanni Paolo II per alloggiare gli elettori nei conclavi, in tempi normali albergo per decine di funzionari e di ospiti.

L’anonima residenza sul confine meridionale del minuscolo stato è insomma divenuta il simbolo personale di Francesco, contrapposto al «palazzo», espressione dell’ultima corte, quella pontificia, rimasta in Europa e in quanto tale subissata di critiche dal pontefice venuto dagli antipodi. Anche se a Santa Marta al papa era stato riservato – del tutto comprensibilmente – l’intero secondo piano e non solo il paio di stanze raccontate dai giornalisti dove prevalentemente trascorreva le sue giornate.

Le finanze e la giustizia 

Forte di questa immagine, nel quadro delle riforme del governo centrale della chiesa Francesco si è molto occupato della gestione economica e finanziaria, per la verità problematica da decenni, ma divenuta sempre più critica per l’aumento incessante delle spese e per l’assottigliarsi delle donazioni da parte dei cattolici statunitensi e tedeschi, principali sostenitori della Santa sede. Le misure ripetutamente introdotte da Bergoglio non sono però riuscite ad arrestare il crescente deficit della Santa sede, come dimostra tra le sue ultime decisioni il respingimento in blocco, a causa delle eccessive spese, dei bilanci preventivi per il 2025 di tutti gli organismi curiali.

Approfittando di questo contesto indubbiamente critico il papa ha perseguito lo svuotamento del potere e dell’autonomia finanziaria della Segreteria di stato, organismo che dal 1967, anno dell’importante riforma curiale di Paolo VI, era il vero cuore della curia romana, ridisegnata invece in modo confuso dagli uomini di Francesco. Questo è anche lo scenario del cosiddetto processo contro il cardinale Angelo Becciu, durante il quale il pontefice è intervenuto con ben quattro provvedimenti (tecnicamente detti rescripta) per modificare il quadro legislativo del processo stesso.

Questo uso di fatto politico della giustizia civile vaticana ha suscitato molte critiche internazionali e quelle di due cardinali anziani, ma di primissimo piano e di orientamenti diversi tra loro: il giurista spagnolo Julián Herranz e il teologo tedesco Walter Kasper. Anche perché nella storia quasi centenaria del piccolo stato vaticano – dove è ignorata la divisione dei poteri che risale a Montesquieu – l’attività del tribunale era stata prudentemente sempre poco praticata.

Assolutismo estremizzato

Senza precedenti è anche l’affermazione che nel 2023 ha introdotto la nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, quasi una costituzione civile. Al di là della minore chiarezza delle due precedenti, all’inizio del testo Francesco fa derivare l’esercizio dei poteri sovrani e assoluti sullo stato dal suo essere successore dell’apostolo Pietro, con una rivendicazione di stampo decisamente ierocratico.

Unico papa nella storia ad avere voluto l’onore degli altari per i suoi predecessori immediati (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II), papa Francesco da vero gesuita ha esaltato come mai prima il primato romano, che ha personalizzato in modo inedito. Ma portando all’estremo l’esercizio assoluto del potere papale cresciuto nei secoli, ha reso indispensabile e urgente una riforma del papato.

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