Da Zagabria la presidente del Consiglio Giorgia Meloni difende il protocollo Italia-Albania siglato con Edi Rama lo scorso 6 novembre. «È molto innovativo e intelligente», ha detto la premier nella conferenza stampa dopo il bilaterale con il suo omologo croato Andrej Plenkovic.

«Un esempio da replicare», dato che «pare che sia stato colto con molto interesse da parte degli altri partner europei», strizzando l’occhio a Plenkovic. Ma a più di dieci giorni di distanza emergono tutte le contraddizioni di un accordo che ha il sapore di pura propaganda politica. Il progetto è chiaro, almeno sulla carta, ma complicato da realizzare: l’Italia trasporterà in Albania i migranti soccorsi in mare dalle imbarcazioni della Guardia costiera e della Guardia di finanza.

Arriveranno al porto di Shengjin, dove saranno smistati e identificati, prima di essere mandati a Gjader, in una struttura simile a un centro di permanenza per il rimpatrio (cpr). Il governo italiano stima che in Albania transiteranno circa 36mila migranti l’anno, non più di tremila alla volta.

Ma i dati sono irreali, perché presuppongono un impiego spropositato di agenti di polizia. Lo sanno anche in alcuni uffici del Viminale che stanno studiando la fattibilità dell’operazione, dove - risulta a Domani - traspare scetticismo nei confronti dei numeri presentati.

Questione sicurezza

Secondo quanto previsto dall’accordo, l’Italia spenderà inizialmente una cifra di 16,5 milioni per il primo anno. I soldi andranno a coprire tutti i costi relativi alle questioni sanitarie e giudiziarie dei migranti, oltre alla gestione del servizio d’ordine garantito dalla polizia albanese per l’esterno della struttura.

All’interno dei centri ci saranno invece gli agenti italiani, ed è qui il problema principale che mette in discussione l’utilità dell’accordo. Per ogni tre-quattro migranti in struttura è previsto, da prassi, un agente di polizia. Avere tremila migranti in contemporanea nel centro in Albania presuppone mettere a disposizione circa mille agenti di sicurezza di stanza a Tirana.

Un numero spropositato, visto il sottorganico lamentato dalle stesse forze dell’ordine. Girolamo Lacquaniti, portavoce dell’Associazione funzionari di polizia, lamentava lo scorso febbraio la mancanza di 10mila agenti tra tutti i corpi dello stato. Quindi pensare a uno spostamento di mille agenti in Albania per riuscire a far rispettare i numeri presenti nell’accordo risulta poco verosimile.

Attualmente i tecnici del Viminale stanno ragionando su un numero molto più basso, all’incirca cento agenti, per gestire la sicurezza del centro. Rispettando le stime di 1 a 3, potranno gestire dunque 300-400 migranti al mese. Per un totale di 3.600 persone l’anno. Una goccia nell’oceano.

Molto poi dipenderà dalla velocità dei rimpatri e dall’analisi delle richieste di asilo. E qui sorge il problema principale: l’Italia non ha un sistema di espulsioni rapido, ogni anno vengono rimpatriate poco più di tremila persone, circa 260 rimpatri di media al mese.

Inoltre, a seconda delle situazioni personali, che dilungano o meno l’analisi delle richieste d’asilo, il tempo medio di permanenza dei migranti nei cpr italiani varia dai 15,5 ai 72,7 giorni, secondo i dati di Pagella politica. È inverosimile, quindi, un ricambio rapido di migranti nel centro in Albania.

Legittimità giuridica

In questi giorni si è discusso anche della legittimità giuridica dell’accordo. Dunja Mijatović, il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, ha sollevato dubbi sull’impatto che avrebbe sui diritti umani dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti.

Il protocollo d’intesa crea un «regime di asilo extraterritoriale ad hoc caratterizzato da molte ambiguità giuridiche», ha detto Mijatović. «Lo spostamento di responsabilità oltre confine da parte di alcuni stati incentiva anche altri a fare lo stesso, il che rischia di creare un effetto domino che potrebbe minare il sistema europeo di protezione internazionale», ha aggiunto.

La commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, che ha accompagnato Meloni per la firma del Mou con il presidente tunisino Kais Saied, si è limitata a dire che «l’Italia sta rispettando il diritto dell’Unione europea, quindi le regole sono le stesse, ma dal punto di vista legale non è la legge dell’Ue, bensì la legge italiana che segue la legge dell’Ue». Secondo Palazzo Chigi.

Al contrario, per l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) il patto è incostituzionale poiché si tratterebbe di un trattato internazionale e quindi, come previsto dalla Costituzione, deve essere ratificato dal parlamento.

Questo perché ci sono oneri finanziari, comporta regolamenti giudiziari, ha natura politica e comporta modificazioni di leggi. Meloni ha assicurato che «sono norme che confronteremo con il parlamento».

Una frase che non risponde alle obiezioni delle opposizioni. Forse la premier spera di sfruttare buchi giuridici e il consenso della mossa. Ma lei stessa non nasconde qualche dubbio: «Starà a noi farlo funzionare nel modo migliore e replicarlo. Se funziona».

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